The Negative Test (Keynes’ Principle of Repulsion)

Before the Italy’s mayor run-offs of the last weeks, I imagined to place a post appealing to an old lecture of John Maynard Keynes – “AM I LIBERAL?”, address to the Liberal Summer School, Cambridge UK, 15 August 1925.
The lecture is about the negative test you are forced to apply when you cannot find a party home by the principle of attraction. In such a case, which is my own case, you must follow the principle of repulsion and choose whom you dislike least.
I renounced at the time to post  this Keynes’ stuff for reasons that have to do more with tedium than with specifics.
But the Keynes’ reasoning still deserves to be recommended.
[In the meanwhile, the Brexit went and I was tempted to restore my mother tongue in this blog. I resisted, for the moment]

If one is born a political animal, it is most uncomfortable not to belong to a party; cold and lonely and futile it is. Continue reading

Reconciling politics and policies in Europe

Even to people like us, accustomed  for professional reasons to systematic doubt
and at the same time exposed for existential reasons to tedium vitae, usually unnecessary and boring Italian public debate has offered some element of interest in the last few days. Now, without wanting to take too seriously nor our discontent nor the quality of the change announced, something worth reasoning has manifested. Then, let even the Renzi’s rhetoric be “devoid of any historical depth and thus unsustainably light” (Paolo Franchi, Corriere della Sera, last Thursday), but it is undeniable that
something new than the exhausting and repetitive flatness prevailed until here
has been proposed. Continue reading

Status-quo bias and structural reforms in Italy

The harmful effects associated with the fallacy known as Lucas Critique or
Panebianco Fallacy (previous post), were fully apparent yesterday, after that Matteo Renzi, the new leader of Democratic Party (PD), submitted in live-streaming to his comrades the political deal (a pact) he reached with Silvio Berlusconi, leader of centre-right opposition party (Forza Italia). This deal is about a seemingly critical package
of structural reforms, aiming at changing Italian institutional framework. Continue reading

Panebianco’s remarks meet the Lucas Critique

The Italian political scene is now absorbed by the discussion and potential implementation of those structural changes needed to reform institutional and economic system to the aim of rescuing the country. In the foreground there is the change of the voting system.
Angelo Panebianco, political scientist (Università di Bologna) and media-columnist (Corriere della Sera), has claimed that every quantitative evaluation of the possible outcomes coming from electoral reform is irremediably flawed. Continue reading

Political polarization in Italy: disruptive and self-destructive (either bottom-up or top-down)

Un parametro attraverso il quale si può provare a spiegare l’esperienza italiana degli ultimi venti anni è il livello della polarizzazione politica, intesa come una divergenza radicale tra maggioranza e opposizione. È aumentata rispetto al periodo precedente? E ammesso che ciò sia avvenuto, con quali effetti?
L’avvento del sistema cosiddetto bi-polare con la sua evoluzione a “vocazione maggioritaria” prometteva, sulla carta, un imbrigliamento dello spirito partigiano latente nell’ethos italico, attraverso la competizione e possibilmente l’alternanza al potere di due blocchi rivali potenzialmente in grado di conquistare l’elettore mediano e quindi un consenso e una forza adeguati per governare il paese secondo le piattaforme programmatiche. L’alternanza in effetti c’è stata, almeno sino ad un certo punto, e con essa la discontinuità rispetto al cosiddetto consociativismo del periodo precedente, ritenuto non senza ragioni il responsabile dell’inefficienza delle nostre istituzioni e dell’ immobilismo del paese. Viceversa, la realizzazione dei programmi si è vista poco o niente. Il fatto che la polarizzazione non sia stata domata e che anzi abbia assunto caratteri peculiari, può rappresentare una chiave per interpretare l’esito paradossale del sistema bipolare italiano. Dalla fine del 2011 il paese è retto da governi sostenuti in vario modo da entrambi i blocchi rivali, attraverso una soluzione bi-partisan coatta, imposta dall’emergenza prima e dall’indeterminatezza dei risultati elettorali dopo. Insomma, l’aspra polarizzazione ha finito per produrre tutti quei vari effetti negativi segnalati dalla letteratura politologica, che possono essere ricondotti ad uno che li riassume tutti: l’inazione politica. Con l’effetto predetto da alcuni modelli di political economics – che la polarizzazione politica, unita o meno all’instabilità politica, tende a favorire l’aumento del debito pubblico – l’esperienza di questo ventennio non è in contrasto sebbene il fenomeno sia esploso molto prima e in condizioni storiche (politiche e istituzionali) completamente differenti.
Intendiamoci, la polarizzazione politica è un fenomeno naturale in quanto riflette le preferenze e l’ideologia degli elettori. L’Italia ha una lunga tradizione di divergenza politica radicale guidata dall’ideologia, e lo stesso vituperato sistema consociativo ha rappresentato l’espediente per (tentare di) governare un paese profondamente diviso in modo democratico. Negli anni settanta del secolo scorso, Giovanni Sartori definì il caso dei sistemi pluripartitici europei come quello italiano un fenomeno di “pluralismo polarizzato”. Nella visione di Sartori si trattava di un processo “bottom-up”, nel senso che era la polarizzazione dell’elettorato ad aver determinato la frammentazione e la polarizzazione della rappresentanza politica. Ma il processo potrebbe essere al contrario di tipo “top-down”, nel senso che la polarizzazione del pubblico rifletterebbe quella delle élite – i partiti stessi e i loro apparati, alcune corporazioni influenti (tipo quella dei magistrati), i media.  Ovviamente tra i due processi non si possono escludere interazioni e feedback.
Se si riflette sulla storia recente del caso italiano si nota senza grandi sforzi interpretativi che in questo caso la polarizzazione rispecchia sempre meno divisioni ideologiche (e programmatiche) e sempre più pregiudizi antropologici o addirittura esistenziali, in una dinamica di faziosità ed animosità crescenti, il cui motore sembra essere proprio il criterio “amico-nemico” teorizzato da Carl Schmitt come l’essenza della politica. In altre parole, l’Italia in questi ultimi vent’anni si è sempre più divisa tra berlusconiani e anti-berlusconiani. E non è forse vero che questi ultimi vedono Berlusconi con il suo populismo carismatico non come un competitore e neanche come un avversario ma come il nemico “altro-da-sé”?  E non è forse vero che i berlusconiani a loro volta si sono impegnati nella lotta senza quartiere contro gli alieni chiamati “comunisti”, proclamando a parole principi liberali e propositi riformatori ma rinunciando nei fatti (o non essendo capaci) a metterli in pratica insieme alle politiche liberiste?
Ora la questione qui è capire fino a che punto questa polarizzazione politica riflette le preferenze della gente (e non piuttosto quelle delle élite).
In un commento sulla sentenza della Corte di Cassazione che ha confermato la condanna per frode fiscale di Silvio Berlusconi, Antonio Polito ha scritto: “Se si escludono le due troppo forti minoranze che si sono aspramente fronteggiate in questo ventennio (rendendo il Paese “diviso e impotente a riformarsi” come ha detto ieri Napolitano), la grande maggioranza degli italiani (…) guarda a queste vicende giudiziarie con un solo metro di giudizio: quanta instabilità porteranno…” (Corriere della Sera, 2 Agosto).
Disgraziatamente nelle condizioni attuali appare piuttosto problematico che questa potenziale maggioranza di italiani riesca a far prevalere le proprie preferenze, indirizzando il sistema bi-polare verso un assetto che in qualche modo imbrigli l’anomala polarizzazione autodistruttiva che impegna queste due minoranze “troppo forti”. Tuttavia, alternative non ce ne sono (o sarebbero catastrofiche).

versione estesa del Diario di Venerdì scorso

The air’s becoming electric (from Buchanan to Pooh)

L’aria s’è fatta elettrica. Potrebbe essere un buon segno al principio dell’anno MMXIII (che una volta si sarebbe detto anno domini, certo non oggi visto anche come vanno le cose oltretevere).
A dire il vero, l’interpretazione dell’attuale clima italiano come qualcosa di promettente richiederebbe che uno fosse capace di spostare lo spaziotempo all’indietro di 45 anni, e con esso la propria autocoscienza , quando essendo grande la confusione sotto il cielo la situazione poteva essere giudicata eccellente. Già perché se uno si mette di buona volontà a cercare un senso a quello che sta accadendo qualcosa di maoista lo potrebbe pure trovare. Siccome, però, sappiamo com’è andata a finire nel più grande paese capitalistico-dirigista del mondo, si tratterebbe ovviamente di un non-senso. La ricerca di senso allora potrebbe spingersi ancora più all’indietro arrivando fatalmente a Rousseau. E qui la ricerca dovrebbe arrestarsi. Essendo a questo punto l’atmosfera diventata torbida. Torbida di volontà generale. Giacché abbiamo imparato a diffidare di un concetto che potrebbe indifferentemente servire a fondare tanto la democrazia liberale quanto la dittatura del proletariato. E non si dicevano coerentemente democrazie popolari tutte le varie realizzazioni marxiste-leniniste del secolo scorso? E non è forse la volontà generale invocata come antidoto al parlamentarismo e come principio della democrazia diretta, o anche, e in modo ugualmente coerente, con lo stato etico di Hegel e lo statalismo in genere?
Insomma, la volontà generale, cioè la volontà della maggioranza che impone a tutti l’obbedienza alla legge anziché limitarsi a difendere la libertà di ognuno e l’eguaglianza di fronte alla legge, è un concetto tanto ambiguo quanto seducente, che ha molto sedotto e che continua a sedurre a quanto pare. Ma che, per quanto ci riguarda, è l’opposto dell’essenza individualistica della democrazia costituzionale.
L’aria è dunque torbida. E ancora più urgente il bisogno di senso. Altro che “volontà generale”, qui servirebbe “volontà di senso”. Ci troviamo in una di quelle situazioni in cui lo stesso postulato alla base del governo democratico – che esista una maggioranza in grado di assegnare uno scopo al governo – sembra venir meno. Perché per fissare lo scopo del governo dobbiamo essere prima di tutto capaci di darci un governo. E qui sembra che siamo talmente divisi e confusi da non riuscirci.
Gli economisti, si sa, hanno una certa pratica di aggregazione. I macroeconomisti, in particolare, eccellono in questo approccio. Pretendono di spiegare con i loro modelli gli effetti macroeconomici delle decisioni prese da una moltitudine di individui eterogenei che interagiscono tra di loro in modi piuttosto complessi. E per darsi una possibilità di raggiungere lo scopo ricorrono ad una varietà di ipotesi semplificatrici.
Nel caso in questione l’ipotesi semplificatrice potrebbe consistere nell’aggregare sotto l’insegna del partito anti-establishment il quarto di italiani che si sono astenuti e il quarto di coloro che hanno votato Grillo. L’aggregazione è arbitraria, s’intende, ma inerentemente plausibile se la prendiamo come un indicatore di insoddisfazione per lo status quo. È ovvio che il 50 per cento che resta, gli elettori pd pdl ecc., non è fatto o è fatto solo in parte di sostenitori dello status quo. Tuttavia, il punto è un altro, ed è che, a livello parlamentare, tale aggregato non avrebbe alcun problema a formare un governo e persino a dargli uno scopo diverso dalla mera sopravvivenza, cioè dalla conservazione dello status quo. Anzi questo eventuale governo sarebbe pressato dall’altro 50 per cento di elettori grillini e di astenuti e spinto ad un programma di cambiamento. E se ci fosse un’entità onnisciente superiore in grado di decodificare la metafisica della volontà generale troverebbe probabilmente la soluzione persino legittima, nel senso di coerente con l’opinione generale del paese. A patto, ovviamente che gli elettori fossero ragionevoli e che lo fossero anche i politici. Qui però sembra che il deficit di razionalità non sia dalla parte degli elettori italiani che hanno votato nel modo in cui hanno votato. Ai politici eletti (a tutti, grillini inclusi), che sono di fronte al dilemma e non riescono a trovare una soluzione, si dovrebbe rammentare il monito attribuito ad Abramo Lincoln: “si può ingannare una parte del popolo per tutto il tempo, si può ingannare tutto il popolo per parte del tempo, ma non si può ingannare tutto il popolo per tutto il tempo”.
Il tempo è scaduto. Per tutti noi. Nel nuovo parlamento scaturito dalle elezioni di febbraio, le soluzioni per darsi un governo e fissargli uno scopo non mancano. Questa dovrebbe essere l’essenza procedurale della democrazia: darsi un governo e fissargli uno scopo. Consigliamo ai politici che hanno smarrito il senso la lettura di un classico. Nel Calculus of Consent (1962), James Buchanan e Gordon Tullock fissarono i fondamenti logici della democrazia costituzionale. Dalla lettura di tale libro detti politici in con-fusione potrebbero trarre la giustificazione di ciò che alcuni di essi schifiltosamente chiamano inciucio, che banalmente si chiama compromesso politico, che Buchanan e Tullock chiamavano logrolling. E che serve ad una cosa fondamentale: proteggere la minoranza dalla tirannia della maggioranza. E cos’è la democrazia se non il governo della maggioranza a favore della minoranza?

Italy is not back – President-Elect Opening Address

Quando, per qualche ragione (tipo una rubrica settimanale come questa), si deve scrivere nell’imminenza di un evento importante (tipo un’elezione politica generale come quella italiana), ci sono due strade, che sono altrettanti cerimoniali. C’è il cerimoniale dell’endorsement e quello degli stratagemmi immunizzanti. La prima strada comincia grosso modo così: “Questa volta votare per il candidato XY è una scelta logica che non richiede nemmeno il bisogno di turarsi il naso, ecc. ecc.”. La seconda strada comincia così: “Mentre scriviamo, le urne in cui gli elettori depositeranno il voto che determinerà il governo futuro del paese stanno per aprirsi in un clima di grande incertezza, ecc. ecc.”.
Poiché non abbiamo nulla da approvare e nulla dal quale immunizzarci, la nostra strada è la famigerata terza via. Non solo, essendo noi economisti e quindi inclini al ragionamento ipotetico-deduttivo, la strada che scegliamo è di anticipare il discorso che sarà pronunciato dal nuovo capo dello stato italiano. Cioè, “assumiamo” che il nuovo parlamento sia stato eletto e che a sua volta abbia eletto il successore di Napolitano (prima di sciogliersi dopo qualche mese). Assumiamo che questo nuovo capo dello stato sia esperto di economia e conosca l’inglese e la storia mondiale contemporanea. Il suo discorso davanti alle Camere riunite comincia così (non è la traduzione del Financial Times ma la trascrizione delle esatte parole pronunciate in inglese dal Presidente):

«Italy is not back, actually Italians are falling behind…».

(Questo esordio riecheggia capovolgendolo quello di un altro famoso discorso presidenziale di molti anni fa. Affermando che “l’America è tornata”, Ronald Reagan intendeva che il declino della società americana era finito. Era il gennaio 1984 e il presidente degli Stati Uniti si preparava al suo secondo mandato: quell’anno il reddito reale pro capite degli americani crebbe di oltre il 7 per cento dopo anni di alti e bassi).

Torniamo al discorso del nostro presidente (che intanto è passato all’italiano).

«L’Italia Non è tornata, dicevo parafrasando Reagan. Anzi gli Italiani hanno fatto un balzo all’indietro. Nel 2012 il loro reddito reale pro capite è tornato ai livelli del 1997. Quindici anni buttati via. Occorre cambiare e bisogna farlo in fretta, altrimenti il declino sarà irreparabile. Questo è il mandato che gli Italiani vi hanno affidato, onorevoli membri del Parlamento».

Da qui in avanti il discorso del nuovo Presidente italiano traccia un’accurata analisi dei problemi del paese. Quella che segue è la nostra sintesi ragionata.

«Ci sono due modi di guardare al reddito reale: dal lato della domanda aggregata e da quello dell’offerta aggregata. Sono importanti tutti e due, anche se il vangelo keynesiano tende a trascurare il secondo, e quello neo-classico il primo…Se ci limitiamo al primo punto di vista, tutto quello che serve fare è spingere la spesa aggregata sacrificando l’equilibrio di bilancio e il consolidamento fiscale alla riduzione della disoccupazione e alla stabilizzazione dell’output. L’aumento dei consumi farà crescere anche gli investimenti delle imprese…Il reddito aggregato aumenterà e con esso anche le entrate dello stato… L’Italia uscirà dalla crisi.
In questo approccio c’è un errore di fondo. La crisi dell’Italia non è una crisi da insufficienza di spesa aggregata. O meglio non è tanto e solo questo… Certo gli shock della Grande Recessione e della successiva crisi dell’euroarea hanno ridotto il prodotto effettivo e aumentato la disoccupazione. E poiché la fase negativa si è prolungata sono emersi gli effetti di quella che gli economisti chiamano isteresi e che incidono, riducendo il capitale umano e l’efficienza delle infrastrutture, anche su livello del prodotto potenziale e non solo su quello corrente::. Tuttavia, la riduzione della crescita del prodotto potenziale, della produttività e della competitività sono anteriori a questi shock e vi ha concorso in modo tangibile il debito pubblico crescente ed eccessivo…La conferma che il declino italiano ha a che fare con questi problemi, si ha confrontando il reddito reale pro capite dell’Italia con quelli degli altri cinque paesi più sviluppati (Usa, Giappone, Germania, Francia e Uk). Il reddito reale pro capite è il risultato dell’interazione di quattro fattori di offerta: la produttività oraria del lavoro, le ore lavorate per lavoratore, il tasso di occupazione e il tasso di partecipazione… Se prendiamo la media del periodo 2007-11, gli Usa hanno il reddito reale pro capite più alto (oltre 48 mila dollari in parità di potere d’acquisto). Il reddito degli Italiani è il più basso e corrisponde al 68 per cento di quello americano… Il primato degli americani deriva essenzialmente da due fattori: la produttività oraria e il tasso di partecipazione, i più alti del campione. Questi sono anche i punti deboli degli italiani: sia la produttività oraria… sia il tasso di partecipazione… sono i più bassi del campione e lontani sia dal leader sia dagli altri paesi (viceversa, i restanti indicatori sono nella media)… ».

Lo spazio della rubrica finisce qui. I dettagli e il resto del discorso del neo-presidente sono da qualche parte on-line. Per quanto riguarda le politiche da attuare per rimuovere questi divari si attende il governo (vero) che verrà.

Dal Diario dei due economisti pubblicato sul Foglio di ieri.

Macroeconomic management and the public interest

In una delle sessioni dell’ultima riunione annuale della American Economic Association (San Diego, 4-6 Gennaio), Donald Kohn (già vicepresidente Fed) ha affermato senza giri di parole che “gli ultimi anni hanno chiarito quanto poco sappiamo effettivamente”. Ammissione onesta, indubbiamente, ma di sicuro assai poco confortante. In effetti, a cinque anni dall’inizio della Grande Recessione, gli economisti stanno ancora questionando per trovare soluzioni all’aumento del debito pubblico e agli elevati tassi di disoccupazione che la crisi ha provocato. In base all’approccio convenzionale, questa situazione crea un dilemma classico. Il primo problema richiede, infatti, disciplina fiscale, ossia politiche restrittive (tagli di spesa/aumenti di tasse), giacché un elevato debito pubblico frena la crescita economica. Il secondo problema richiede, al contrario, politiche espansive, perché la debole domanda aggregata fissa il pil ad un livello inferiore al suo potenziale. Allora, per provare a stabilizzare il pil intorno al suo livello potenziale, occorrerebbero misure di stimolo: aumenti di spesa/tagli di tasse e un’espansione monetaria. Il dilemma deriva dal conflitto tra questi obiettivi, o meglio tra le politiche che dovrebbero permettere di raggiungere tali obiettivi. Per la verità, gli effetti del consolidamento fiscale potrebbero essere temperati da una politica monetaria accomodante. Ma ecco che qui sorgono due complicazioni che mettono ancora più in difficoltà la visione tradizionale.
Primo, con i tassi d’interesse spinti ai più bassi livelli possibili (vicino lo zero), la politica monetaria ha esaurito le sue munizioni anticicliche convenzionali (la famigerata “trappola della liquidità” keynesiana), e quelle non convenzionali non sembrano avere effetti straordinari, come mostrano gli esiti delle ripetute energetiche tornate di quantitative easing della Fed e di quelle più prudenti della stessa Bce. In altre parole, il meccanismo di trasmissione della politica monetaria, inceppato dalla crisi finanziaria (le banche sono riluttanti a concedere prestiti), non è stato sbloccato dal quantitative easing, o, perlomeno, quest’ultimo è servito solo a non far peggiorare le cose, senza riuscire a migliorarle. Qui, naturalmente, si potrebbe discutere se questo parziale insuccesso sia stato un risultato inevitabile o sia dipeso dalla dimensione inadeguata dell’intervento. La verità è che, nel nuovo scenario della politica monetaria, gli economisti sono arrivati in una “terra incognita”. 

Secondo, i programmi di austerità, che rappresentano la quintessenza della virtù fiscale, e che sono stati adottati in forme energiche (sia nella dimensione che nel timing) soprattutto in Europa, hanno provocato effetti recessivi superiori a quelli attesi. Il problema è stato sollevato, anche se in modo alquanto tecnico, da numerosi osservatori, compresi le principali istituzioni internazionali come l’Fmi, l’Ocse e la stessa Commissione europea. Da ultimi Olivier Blanchard (capo economista del Fmi) e Daniel Leigh hanno confermato che i moltiplicatori fiscali assunti comunemente si sono rivelati largamente sottostimati (“Growth Forecast Errors and Fiscal Multipliers”, January 2013). Questa sottostima spiega perché la gran parte dei previsori aveva associato i programmi di consolidamento fiscale, intrapresi dai vari paesi in particolare in Europa, a tassi di crescita attesi superiori a quelli effettivamente realizzatisi. In media, il valore dei moltiplicatori fiscali, usati e validati per i tempi normali, era ipotizzato attorno a 0,5. I fatti hanno dimostrato che, nei tempi di crisi, i moltiplicatori fiscali sono più alti e superano largamente l’unità.

Ovviamente, gli effetti di breve periodo sulla domanda aggregata della politica fiscale sono solo uno dei vari fattori che devono essere considerati nel determinare la grandezza e il ritmo appropriati del consolidamento fiscale. E il fatto che i moltiplicatori fiscali possano essere maggiori di quanto atteso (e sperato) non implica che il consolidamento fiscale sia indesiderabile. Semplicemente, è necessario, a causa degli elevati livelli del debito pubblico e le prospettiche pressioni demografiche sulle finanze pubbliche.
La morale è che, viste queste incertezze degli economisti, il compito dei responsabili della politica economica è ancora più impegnativo del solito. Qui, secondo noi, sta l’essenza del dibattito, che sembra appassionare il nostro paese in modo morboso, sul ruolo dei tecnici e su quello dei politici. Questi ultimi sono, per l’appunto, i responsabili della politica economica. Oggi, più che in situazioni normali, la scelta delle politiche ricade sulle spalle dei politici. E le scelte politiche si fanno in base alle visioni politiche. Il punto di vista liberale, pro-mercato e pro-crescita, predilige politiche di stabilizzazione fondate su interventi monetari preventivi e su politiche fiscali che riducano la pressione fiscale nelle fasi di recessione e la spesa pubblica durante le fasi di espansione. Poiché il taglio delle tasse ha anche un effetto di offerta, tale approccio ha anche ripercussioni sulla crescita di lungo periodo. Col passare del tempo, le dimensioni del settore pubblico si riducono. Il punto di vista contrario, rovescia questo risultato (e di conseguenza l’indirizzo delle politiche) Gli elettori italiani dovrebbero poter scegliere tra queste due opzioni. Per farlo, le forze politiche che si confrontano oggi nel paese dovrebbero esprimere in modo chiaro l’adesione all’una o all’altra, e indicare i mezzi per raggiungere i fini enunciati (esplicitando una qualche base quantitativa controllabile dei vari programmi per saggiarne la coerenza). Ciò avverrebbe naturalmente se i politici avessero come motivazione dominante l’«interesse pubblico». La scuola della public choice ci ha mostrato quali siano le conseguenze per la politica economica quando i politici sono considerati persone normali, che reagiscono agli incentivi macroeconomici. La campagna elettorale che si sta sviluppando in vista delle elezioni di febbraio, sulla falsariga di quelle del recente passato, è una dimostrazione sotto gli occhi di tutti di quanto questa intuizione di Jim Buchanan ed associati resti essenziale per valutare la portata e i limiti della politica economica.

versione estesa de La Trappola, diario dei due economisti, Il Foglio – venerdì 11 2013.
Su questo questo argomento vedi anche i post: Louise-Michel del 3 aprile 2009 qui, DEF (Davvero E’ Finita?) del 21 aprile 2012 qui, e The Austerity Shadow Line dell’11 novembre 2012 qui.

The banality of Agenda

Tra un tortellino e una capasanta, il natale scorre liscio stando attenti ad evitare gli accessori inessenziali – tipo dolci rituali e tombolate. Tutto ciò nonostante le giaculatorie sui banchetti perduti, che puntualmente ogni anno i media non evitano di pompare con dovizia quantitativa ma che sono fuffa, statisticamente parlando. Alla fine dei giochi, quando di solito la statistica acquista la sua propria natura non illusoria anche se certamente tardiva, potrà non essere sorprendente scoprire che, al contrario, i consumi alimentari questa volta sono aumentati…Ovviamente, il clima di fondo non è idilliaco, e l’appropriata statistica che ce lo rammenta è il tasso di disoccupazione che in Italia ha sfondato l’11 per cento. Che è il dato europeo peggiore, una volta depurato il contesto delle patologie ellenica e ispanica. Tuttavia, il natale sarebbe stata quella pausa che è giusto che sia e di cui si diceva – il Natale, naturalmente, è un’altra cosa ancora ma esula da questa rubrica- se non ci fosse stata quella storia dell’Agenda, che invece, sfortunatamente, è pertinente al diario dei due economisti. Ora, non è che la storia dell’Agenda abbia turbato la nostra transitoria quiete, ma indubbiamente ci ha costretto ad una riflessione che avremmo volentieri rinviato al nuovo anno (tanti auguri, già che ci siamo). Per la verità, nemmeno la lettura dell’Agenda è riuscita a turbarci, ma questo dipende dalla banalità del contenuto e della forma. Semmai, s’insinua una certa delusione, evidentemente alimentata da un’aspettativa infondata. Già perché, al di là della forma palesemente al di sotto del di per sé non scoppiettante standard montiano, l’Agenda è una collezione di cose per lo più scontate. Nel senso che è infarcita di svariate enunciazioni condivisibili ma piuttosto generiche. Stiamo parlando, si è capito, dell’Agenda-Monti. O dovremmo dire “un’Agenda-Monti”, visto che l’autore l’ha intitolata “Un’Agenda Per Un Impegno Comune”. Sottotitolo: Primo Contributo ad una Riflessione Aperta. Insomma, profilo basso ed aperto (al dialogo), se non fosse per l’occhiello, che enuncia: Cambiare l’Italia, Riformare l’Europa”. Già qui, in questa giustapposizione iniziale di understatement ed enfasi rivoluzionaria, si capisce che l’agenda /un’agenda Monti è stata ben poco soppesata. Il che è sorprendente, oppure no, chi sa. Una certa confusione è innegabile. In conferenza stampa, Monti, primo ministro del governo dimissionario, era stato piuttosto sfuggente sulla questione centrale del suo latente ruolo politico. Si era persino compiaciuto di sottigliezze ermeneutiche distinguendo tra discesa in campo e salita in campo, quest’ultima essendo l’appropriata metafora da usarsi, secondo il premier, per una cosa nobile come la politica. Per finire su questi aspetti diciamo così stilistici, è evidente un certo imbarazzo argomentativo nel documento in questione. Ciò è dovuto al fatto che il documento oscilla continuamente tra la logica del bilancio delle cose fatte – dal suo governo, e che quindi Monti può attribuirsi legittimamente – e la logica del programma delle cose da fare – rispetto alle quali, viceversa, Monti preferisce porsi a bordo campo.
 Poi ci sarebbero i contenuti. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi hanno già fatto notare sul Corriere di ieri che per ridurre le tasse, come il documento enuncia, è necessario ridurre il perimetro dello stato, ma di questo “non si parla abbastanza”. Insomma, il difetto bollato da Alesina & Giavazzi è che il programma di Monti è ancora troppo “stato-centrico”.
Si può emendare un difetto del genere? Ci sembra difficile, giacché a noi sembra che esso rifletta un’impostazione di fondo piuttosto che la scelta di una delle alternative possibili per raggiungere un dato scopo. Anzi è più di un’impostazione, è una visione. Questo lo si deduce dal paragrafo 3 del documento, intitolato:”Costruire una economia sociale di mercato, dinamica e moderna”. Nella conferenza stampa Monti aveva parlato, citando un articolo dell’Economist, della sfida che sta di fronte ai liberali di oggi: come ridurre l’ineguaglianza senza frenare il dinamismo del capitalismo e dell’economia di mercato. La risposta non è certo nell’economia sociale di mercato, un residuo ideologico del novecento, così come il comunismo, di cui rappresentò proprio la reazione da parte del fronte dei conservatori, e in genere una delle risposte a difesa del capitalismo.
Immaginiamo che questo argomento critico che solleviamo possa essere liquidato dai cosiddetti realisti come un capriccio dottrinario. Può essere. Noi abbiamo a cuore il realismo, e nel postmodernismo riconosciamo un tratto storico – antropologico (per così dire generazionale), ma ne aborriamo il (ridicolo) nichilismo ontologico. Anzi, siamo volentieri pragmatici, e persino eclettici come è necessario, per esempio, nel campo della politica economica che è priva di certezze a priori. Ma ci stanno ugualmente a cuore le teorie, senza le quali, parafrasando Kant, le intuizioni sarebbero cieche. E ci stanno a cuore le idee (gli schemi concettuali). E cosa sarebbe un programma politico che vuole cambiare l’Italia – riformare l’Europa, senza idee, modelli, esperienze di riferimento per affrontare un sì vasto compito?
Non solo. Nelle piccole cose come nelle grandi, è la storia delle idee a darci qualche volta una mano per affinare la nostra comprensione degli eventi. Sovente le azioni umane sono “serendipitose”, nel senso che producono degli effetti virtuosi non intenzionali, che non erano stati né immaginati né tanto meno perseguiti. Si tratta di un pilastro dell’approccio anti-costruttivista di Hayek. È anche il fondamento della “mano invisibile” di Smith, e, in un’altra forma, della divina provvidenza. Tuttavia, non è meno importante, come aveva intuito Albert Hirschman, tener conto degli effetti consapevolmente perseguiti ma che non si sono realizzati. Ai suoi inizi il capitalismo fu visto come il modo per sottrarre gli uomini dai loro peggiori istinti e dalle passioni distruttive, spingendoli verso il meno pericoloso perseguimento dell’interesse personale. Che è proprio il motivo per il quale è stato poi ed è grandemente biasimato.
Pensiamo che queste parole di Albert Hirschman, l’eclettico economista recentemente scomparso, siano molto adatte al caso in questione:

“le aspettative illusorie che sono associate con certe decisioni sociali al momento della loro adozione aiutano a rivelare i loro reali effetti futuri” (The Passions and the Interests, 1977).

Parametrizing Berlusconism

The Italian political scene in the last nearly 2 decades (1994-2012) was dominated by the Silvio Berlusconi’s experience. For the good and evil, these nearly 20 years were the years of berlusconism and counter-berlusconism. Berlusconism arose as a reaction to the post/ex-communists and their likely success after the collapse of the ruling system until then – the so-called consociativismo, a shared mode of power where the centre (DC = Democrazia Cristiana) governed the country with the consent of the left (PC = Partito Comunista) and of trade unions, and with the help of a collection of small conservative parties (the Partito Socialista of Bettino Craxi was a controversial exception in this scenario). In short, Berlusconism was a pro-market movement, anchored to a charismatic populism core, which fought, and often defeated, the near-social-democrat heirs of Communist Party.
If we use two simple quantitative parameters to proxy the size of the state and thus to evaluate the pro-market direction of this experience – the ratios of public debt and public revenues to Gdp, i.e the total amount of resources captured by central government – we easily find that Berlusconism has been a failure. Both public debt and taxes (central government gross indebtness and total revenue) as percent of Gdp significantly raised in Italy in the period 1994-2012, the years of Berlusconism. The increase was of about 4 % point for both debt and revenue.
(Data are our elaborations from Imf fiscal dataset)