Secondo le ultime previsioni Ocse (qui), gli effetti della crisi finanziaria globale si faranno sentire in Italia sin da quest’anno e si prolungheranno per buona parte del prossimo. Nel 2008 e nel 2009, il tasso di crescita del Pil sarà pari al –0,4% e al –1,0% rispettivamente.Solo nel 2010 è prevista una ripresa (+0,8%) che, tuttavia resterà al di sotto di quella di Eurolandia (+1,2%). Se queste proiezioni verranno confermate dalla realtà, si tratterebbe della prima volta che l’Italia sperimenta due anni consecutivi di crescita negativa (sebbene la recessione del 1975 fu più intensa, –2% e quella del 1993 di dimensione comparabile).
Tuttavia per cercare di capire la natura della recessione italiana bisogna tener presente due cose.
- La nostra economia ha cominciato a rallentare sin dagli ultimi mesi del 2007 (nel quarto trimestre la crescita del Pil aveva registrato una flessione dello 0,3 per cento rispetto al trimestre precedente), cioè prima che esplodesse lo sconquasso finanziario globale. Questo rallentamento si è rafforzato nel corso di quest’anno, dopo un’effimera e marginale ripresa nel primo trimestre.
- La recessione, in realtà, colpisce un’economia già fiaccata da diversi anni consecutivi di crescita strutturale anemica, caratterizzata da una produttività stagnante, una competitività declinante e un debito pubblico elevato.
Da questi due “fatti” si ricava un’importante conseguenza:
- Sarebbe azzardato interpretare questo scostamento del prodotto dal suo equilibrio (potenziale) come il riflesso esclusivo di una carenza della domanda aggregata in un sistema prossimo alla deflazione. Per quanto riguarda le implicazioni di politica economica, cioè gli eventuali rimedi, una situazione del genere, in cui la famigerata “trappola della liquidità” keynesiana rende inefficace qualunque intervento monetario, richiederebbe un sollecito e vigoroso stimolo fiscale.
Viceversa, come vedremo, le interpretazioni dominanti puntano ad identificare l’attuale congiuntura europea proprio come un “caso keynesiano da manuale”. E quindi a proporre un adeguato stimolo fiscale. Su questa strada si è già indirizzata la Gran Bretagna, il cui governo ha adottato un pacchetto di stimoli fiscali pari all’1% del pil fondato su di un taglio di due punti percentuali e mezzo dell’aliquota Iva standard (dal 17,5 al 15, circa 15 miliardi di euro), più altri interventi minori. E nella stessa direzione si muove l’«European Recovery Programme» proposto dal think tank Bruegel (qui), fatto proprio anche Mario Monti (sul Corriere di domenica scorsa).
In vista della presentazione di domani dell’Action Plan della Commissione Europea, che sarà posto all’attenzione del Consiglio Europeo dell’11-12 Dicembre prossimi, Jean Pisany-Ferry, André Sapir e Jakob von Weizsäcker, autori del Programma, propongono un taglio armonizzato (almeno per tutti i paesi dell’area Euro) dell’aliquota Iva di un punto percentuale più altre misure nazionali fino a raggiungere un totale dell’uno per cento del Pil, da rendere effettivo il Primo Gennaio 2009 e chiudere entro il 2010. Per essere credibile lo stimolo fiscale deve essere sostenibile e perciò il Programma Bruegel prescrive un piano di rientro sanzionabile da presentare entro il 2009 per quei paesi il cui deficit fosse superiore al 3% del Pil. Nel caso di inadempienza sarebbe applicata una procedura accelerata di disavanzo eccessivo (obbligo di rientro al 2010 anziché al 2012). Inoltre, “per rafforzare la percezione del Programma come una risposta di emergenza e non come un ritorno all’indisciplina di bilancio”, i governi dovrebbero impegnarsi a non finanziarsi a tassi superiori di oltre duecento punti base al tasso al quale si finanzia il governo dell’area Euro che ha ottenuto sul mercato il tasso più basso.
Ma un programma del genere ha senso anche per l’Italia, alla luce del punto 2. di sopra?
Rispondere non è semplice. Un po’ di evidenza empirica è utile.
Sempre secondo i dati Ocse, l’”output gap”, ossia le deviazioni del Pil effettivo dal suo livello potenziale (conseguibile utilizzando in modo efficiente tutti i fattori produttivi), risulta negativo per l’Italia sin dal 2003. Inoltre, è la stessa dinamica del prodotto potenziale ad essere insoddisfacente rispetto anche ai non brillantissimi standard europei. Nel periodo 1986-95, la variazione percentuale media del Pil potenziale italiano era vicina a quella dell’area Euro (2% rispetto a 2,2%), sebbene largamente inferiore a quella degli Stati Uniti (3,1%), ma nel decennio successivo è scesa all’1,5% mentre quella dell’area Euro è rimasta costante (come è accaduto negli Usa). Poiché sia la dinamica dell’occupazione sia quella dello stock di capitale – i due principali fattori, insieme alla tecnologia, all’origine della crescita di lungo periodo, ossia del prodotto potenziale – sono relativamente allineate a quelle delle altre principali economie europee, il singolo fattore responsabile di questo divario è la produttività del lavoro. La produttività del lavoro è cresciuta in Italia ad un tasso vicino (o superiore) a quello dell’area Euro sino alla metà degli anni novanta; dopo di che è iniziata la divergenza. Dal 1996 al 2007, la crescita della produttività è stata dello 0,3% in Italia (0,9% e 1,9% in Eurolandia e Usa, rispettivamente); nei primi sette anni del nuovo millennio, la crescita è stata addirittura negativa (-0,2%) contro una crescita dello 0,6% in Eurolandia e dell1,8% negli Usa.
Uno stimolo fiscale pari all’un per cento del Pil, significa nel caso dell’Italia circa 15 miliardi di euro correnti se prendiamo come riferimento il Pil del 2007 (un’approssimazione accettabile visto che nel 2008, a stare alle previsioni Ocse, il Pil reale si ridurrà un po’, e l’inflazione sarà intorno al 2,5%). Poiché il gettito dell’Iva è stato nel 2007 di 122 miliardi, se lo stimolo fiscale fosse tutto imperniato sul taglio dell’Iva, il relativo gettito si ridurrebbe del 12,6%. Se prendiamo l’aliquota media implicita (non quella legale) dell’Iva nel 2007, una riduzione dell’uno per cento (dall’ 8,9 al 7,9%) comporterebbe una riduzione di gettito di quasi 14 miliardi. Resterebbe perciò un miliardo per altri interventi fiscali. Se prendiamo le aliquote legali, probabilmente il taglio dell’aliquota “normale” (20%) dovrebbe essere tra i tre e i quattro punti percentuali per raggiungere la dimensione desiderata.
Che effetto avrebbe uno stimolo fiscale di questo tipo?
Il moltiplicatore delle imposte indirette – che ci dice di quanto varia percentualmente il pil per una variazione dell’1% delle imposte indirette – non è molto alto in base all’evidenza empirica disponibile: è compreso tra ¼ e 1/3. Perciò un taglio di un punto percentuale dell’aliquota media implicita dell’Iva, farebbe aumentare il Pil reale dello 0,25 per cento o al massimo dello 0,3% in un anno (senza considerare l’effetto negativo che si avrebbe quando l’aliquota viene rialzata al livello originario una volta che il programma è esaurito).
In realtà, per stabilire l’effetto dello stimolo fiscale contano le aspettative dei consumatori, la credibilità del programma, il numero di consumatori “liquidity constrained” e la dimensione del vincolo. Supponiamo che i consumatori “credano” nel programma e si aspettino che effettivamente le imprese “passino” la riduzione della tassa sul prezzo di vendita. (Si tratta di un’assunzione “generosa” nei confronti dell’efficacia del programma; non è detto infatti che i consumatori, in un mondo di vendite speciali sconti saldi etc., siano in grado di stabilire facilmente se e di quanto il prezzo finale che essi pagano sia stato ridotto; dal canto loro, i venditori rendendosi conto di tale difficoltà potrebbero essere indotti a comportamenti “scorretti”, ad esempio reclamizzando ma non praticando prezzi più bassi).
Una riduzione delle tasse indirette e dell’Iva in particolare aumenta il valore reale della ricchezza in termini dei beni che possono essere acquistati dai consumatori. Però, per essere indotti ad anticipare le loro spese in vista dell’aumento dell’Iva (la riduzione dell’aliquota è transitoria e dura un solo anno) – che è il meccanismo attraverso il quale uno stimolo di questo tipo è supposto agire – i consumatori non devono avere un vincolo di liquidità. Se, viceversa, i consumatori che si trovano in una situazione di “liquidity constraint” sono numerosi e se lo stimolo fiscale non ha una dimensione sufficiente ad allentare detto vincolo per un numero ampio di consumatori, lo stimolo non avrà un grande effetto.
A stare a quanto si è letto e ascoltato in questi ultimi anni, i consumatori italiani in condizioni di “vincolo di liquidità” non devono essere pochi e hanno continuato ad aumentare a causa della bassa crescita dei redditi, e di certo il credit crunch causato dal collasso finanziario non può che aver peggiorato la situazione.
In conclusione, non credo che il “programma Bruegel” sia la cosa migliore da fare per l’Italia, se qualcosa si deve fare per reagire ad una situazione di emergenza.