Bruegel Stimulus

200px-Brueghel-tower-of-babel[1]Secondo le ultime previsioni Ocse (qui), gli effetti della crisi finanziaria globale si faranno sentire in Italia sin da quest’anno e si prolungheranno per buona parte del prossimo. Nel 2008 e nel 2009, il tasso di crescita del Pil sarà pari al –0,4% e al –1,0% rispettivamente.Solo nel 2010 è prevista una ripresa (+0,8%) che, tuttavia resterà al di sotto di quella di Eurolandia (+1,2%). Se queste proiezioni verranno confermate dalla realtà, si tratterebbe della prima volta che l’Italia sperimenta due anni consecutivi di crescita negativa (sebbene la recessione del 1975 fu più intensa, –2% e quella del 1993 di dimensione comparabile).

Tuttavia per cercare di capire la natura della recessione italiana bisogna tener presente due cose.

  1. La nostra economia ha cominciato a rallentare sin dagli ultimi mesi del 2007 (nel quarto trimestre la crescita del Pil aveva registrato una flessione dello 0,3 per cento rispetto al trimestre precedente), cioè prima che esplodesse lo sconquasso finanziario globale. Questo rallentamento si è rafforzato nel corso di quest’anno, dopo un’effimera e marginale ripresa nel primo trimestre.
  2. La recessione, in realtà, colpisce un’economia già fiaccata da diversi anni consecutivi di crescita strutturale anemica, caratterizzata da una produttività stagnante, una competitività declinante e un debito pubblico elevato.

Da questi due “fatti” si ricava un’importante conseguenza:

      • Sarebbe azzardato interpretare questo scostamento del prodotto dal suo equilibrio (potenziale) come il riflesso esclusivo di una carenza della domanda aggregata in un sistema prossimo alla deflazione. Per quanto riguarda le implicazioni di politica economica, cioè gli eventuali rimedi, una situazione del genere, in cui la famigerata “trappola della liquidità” keynesiana rende inefficace qualunque intervento monetario, richiederebbe un sollecito e vigoroso stimolo fiscale.

Viceversa, come vedremo, le interpretazioni dominanti puntano ad identificare l’attuale congiuntura europea proprio come un “caso keynesiano da manuale”. E quindi a proporre un adeguato stimolo fiscale. Su questa strada si è già indirizzata la Gran Bretagna, il cui governo ha adottato un pacchetto di stimoli fiscali pari all’1% del pil fondato su di un  taglio di due punti percentuali e mezzo dell’aliquota Iva standard (dal 17,5 al 15, circa 15 miliardi di euro), più altri interventi minori. E nella stessa direzione si muove l’«European Recovery Programme» proposto dal think tank Bruegel (qui), fatto proprio anche Mario Monti (sul Corriere di domenica scorsa).
In vista della presentazione di domani dell’Action Plan della Commissione Europea, che sarà posto all’attenzione del Consiglio Europeo dell’11-12 Dicembre prossimi, Jean Pisany-Ferry, André Sapir e Jakob von Weizsäcker, autori del Programma, propongono un taglio armonizzato (almeno per tutti i paesi dell’area Euro) dell’aliquota Iva di un punto percentuale più altre misure nazionali fino a raggiungere un totale dell’uno per cento del Pil, da rendere effettivo il Primo Gennaio 2009 e chiudere entro il 2010. Per essere credibile lo stimolo fiscale deve essere sostenibile e perciò il Programma Bruegel prescrive un piano di rientro sanzionabile da presentare entro il 2009 per quei paesi il cui deficit fosse superiore al 3% del Pil. Nel caso di inadempienza sarebbe applicata una procedura accelerata di disavanzo eccessivo (obbligo di rientro al 2010 anziché al 2012). Inoltre, “per rafforzare la percezione del Programma come una risposta di emergenza e non come un ritorno all’indisciplina di bilancio”, i governi dovrebbero impegnarsi a non finanziarsi a tassi superiori di oltre duecento punti base al tasso al quale si finanzia il governo dell’area Euro che ha ottenuto sul mercato il tasso più basso.

Ma un programma del genere ha senso anche per l’Italia, alla luce del punto 2. di sopra?

Rispondere non è semplice. Un po’ di evidenza empirica è utile.      
Sempre secondo i dati Ocse, l’”output gap”, ossia le deviazioni del Pil effettivo dal suo livello potenziale (conseguibile utilizzando in modo efficiente tutti i fattori produttivi), risulta negativo per l’Italia sin dal 2003. Inoltre, è la stessa dinamica del prodotto potenziale ad essere insoddisfacente rispetto anche ai non brillantissimi standard europei. Nel periodo 1986-95, la variazione percentuale media del Pil potenziale italiano era vicina a quella dell’area Euro (2% rispetto a 2,2%), sebbene largamente inferiore a quella degli Stati Uniti (3,1%), ma nel decennio successivo è scesa all’1,5% mentre quella dell’area Euro è rimasta costante (come è accaduto negli Usa). Poiché sia la dinamica dell’occupazione sia quella dello stock di capitale – i due principali fattori, insieme alla tecnologia,  all’origine della crescita di lungo periodo, ossia del prodotto potenziale – sono relativamente allineate a quelle delle altre principali economie europee, il singolo fattore responsabile di questo divario è la produttività del lavoro. La produttività del lavoro è cresciuta in Italia ad un tasso vicino (o superiore) a quello dell’area Euro sino alla metà degli anni novanta; dopo di che è iniziata la divergenza. Dal 1996 al 2007, la crescita della produttività è stata dello 0,3% in Italia (0,9% e 1,9% in Eurolandia e Usa, rispettivamente); nei primi sette anni del nuovo millennio, la crescita è stata addirittura negativa (-0,2%) contro una crescita dello 0,6% in Eurolandia e dell1,8% negli Usa.

Uno stimolo fiscale pari all’un per cento del Pil, significa nel caso dell’Italia circa 15 miliardi di euro correnti se prendiamo come riferimento il Pil del 2007 (un’approssimazione accettabile visto che nel 2008, a stare alle previsioni Ocse, il Pil reale si ridurrà un po’, e l’inflazione sarà intorno al 2,5%). Poiché il gettito dell’Iva è stato nel 2007 di 122 miliardi, se lo stimolo fiscale fosse tutto imperniato sul taglio dell’Iva, il relativo gettito si ridurrebbe del 12,6%. Se prendiamo l’aliquota media implicita (non quella legale) dell’Iva nel 2007, una riduzione dell’uno per cento (dall’ 8,9 al 7,9%) comporterebbe una riduzione di gettito di quasi 14 miliardi. Resterebbe perciò un miliardo per altri interventi fiscali. Se prendiamo le aliquote legali, probabilmente il taglio dell’aliquota “normale” (20%) dovrebbe essere tra i tre e i quattro punti percentuali per raggiungere la dimensione desiderata.

Che effetto avrebbe uno stimolo fiscale di questo tipo?

Il moltiplicatore delle imposte indirette – che ci dice di quanto varia percentualmente il pil per una variazione dell’1% delle imposte indirette – non è molto alto in base all’evidenza empirica disponibile: è compreso tra ¼ e 1/3. Perciò un taglio di un punto percentuale dell’aliquota media implicita dell’Iva, farebbe aumentare il Pil reale dello 0,25 per cento o al massimo dello 0,3% in un anno (senza considerare l’effetto negativo che si avrebbe quando l’aliquota viene rialzata al livello originario una volta che il programma è esaurito).

In realtà, per stabilire l’effetto dello stimolo fiscale contano le aspettative dei consumatori, la credibilità del programma, il numero di consumatori “liquidity constrained” e la dimensione del vincolo. Supponiamo che i consumatori “credano” nel programma e si aspettino che effettivamente le imprese “passino” la riduzione della tassa sul prezzo di vendita. (Si tratta di un’assunzione “generosa” nei confronti dell’efficacia del programma; non è detto infatti che i consumatori, in un mondo di vendite speciali sconti saldi etc., siano in grado di stabilire facilmente se e di quanto il prezzo finale che essi pagano sia stato ridotto; dal canto loro, i venditori rendendosi conto di tale difficoltà potrebbero essere indotti a comportamenti “scorretti”, ad esempio reclamizzando ma non praticando prezzi più bassi). 

Una riduzione delle tasse indirette e dell’Iva in particolare aumenta il valore reale della ricchezza in termini dei beni che possono essere acquistati dai consumatori. Però, per essere indotti ad anticipare le loro spese in vista dell’aumento dell’Iva (la riduzione dell’aliquota è transitoria e dura un solo anno) – che è il meccanismo attraverso il quale uno stimolo di questo tipo è supposto agire – i consumatori non devono avere un vincolo di liquidità. Se, viceversa, i consumatori che si trovano in una situazione di “liquidity constraint” sono numerosi e se lo stimolo fiscale non ha una dimensione sufficiente ad allentare detto vincolo per un numero ampio di consumatori, lo stimolo non avrà un grande effetto.

A stare a quanto si è letto e ascoltato in questi ultimi anni, i consumatori italiani in condizioni di “vincolo di liquidità” non devono essere pochi e hanno continuato ad aumentare a causa della bassa crescita dei redditi, e di certo il credit crunch causato dal collasso finanziario non può che aver peggiorato la situazione. 

In conclusione, non credo che il “programma Bruegel” sia la cosa migliore da fare per l’Italia, se qualcosa si deve fare per reagire ad una situazione di emergenza. 

Capitale umano e sprechi (body of lies)

Tra il 2000 e il 2006 3 miliardi di euro di fondi comunitari per la ricerca sono stati erogati al nostro paese. Sono stati gestiti dal Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca (MIUR) e destinati in prevalenza al Mezzogiorno. Si tratta di una somma alquanto maggiore (circa il doppio) dei tagli del finanziamento pubblico al sistema universitario previsti dalla Finanziaria per i prossimi anni.
Ebbene, come sono stati usati questi fondi comunitari? In modo inefficiente. La prova è fornita, come argomenta Nicola Rossi sul Corriere di oggi, dal fatto che è stato completamente mancato l’obiettivo del programma che era quello di avvicinare l’incidenza sul pil della spesa in Ricerca e Sviluppo (R&S) agli standard europei. Come si può notare dai dati riportati nella prima colonna della tabella (relativa alle 8 regioni che convenzionalmente costituiscono il Mezzogiorno), nel 2007 la spesa R&S in percentuale del Pil si colloca in media attorno allo 0,7 per cento nel Mezzogiorno, grosso modo lo stesso valore del 2000. Nell’aggregato dell’Unione Europea a 27 paesi, l’incidenza della spesa R&S sul pil è dell’1,8%, ossia due volte e mezzo il valore del mezzogiorno. Dalla stessa tabella si evince, terza colonna, che l’incidenza media di laureati sulla popolazione residente nel Mezzogiorno è circa la metà di quella di Ue-27. (L’ultima colonna della tabella è un indicatore strutturale: i dati sintetizzano il divario nel reddito pro-capite tra le regioni meridionali e quelle del centro-nord; tale divario ha naturalmente molte ragioni, alle quali l’innovazione e il capitale umano non sono estranei).  
 

Innovazione, capitale umano e reddito – 2007

 

Spesa R&S in % del Pil

% occu-pati nei settori Ict sul totale occupati

% laureati su popolazione

Pil pro capite in % Centro Nord

Abruzzo

1.1

12.3

14.6

69.8

Molise

0.4

11.4

13.4

64.5

Campania

1.1

11

11.2

54.5

Puglia

0.6

9.4

10.5

57.1

Lucania

0.5

10

11.4

61.4

Calabria

0.4

11.7

12.3

54.8

Sicilia

0.8

10.9

10.8

55.3

Sardegna

0.7

9.3

10.4

67.1

Media

0.7

10.8

11.8

60.6

Ue-27

1.8

15.5

22.7

 

Fonte: Elaborazioni su dati del Rapporto Svimez 2008.

Insomma questi fondi comunitari per la ricerca sono stati sprecati. Uno spreco che non ha suscitato nessuna protesta, nessuna onda, nessuna stupefacente alleanza tra studenti e rettori come invece è accaduto per i tagli della Finanziaria. Osserva Nicola Rossi: «Forse non è poi così sbagliato pensare che la protesta nei confronti dei tagli nasconda spesso e volentieri la volontà di difendere le modalità con cui oggi si finanzia l’istruzione superiore. E sarebbe opportuno che, più di altri gli studenti ci riflettano». Ecco; anche perché sono in arrivo per il periodo 2007-2013 fondi comunitari destinati alla ricerca per 9 miliardi, quasi quanto la spesa annua complessiva per l’università in Italia – 10 miliardi circa. Un livello basso di per sé – lo 0,9 per cento del pil nel 2005 contro l’1,5 per cento nei paesi Oecd. Che ovviamente sarà ulteriormente ridotto dai i tagli programmati per i prossimi 5 anni (1,4 miliardi in totale), che rappresentano in media (di fatto le riduzioni saranno operative a partire dal 2010) il 2,8% della spesa annua. Altrettanto ovviamente, i tagli e il cambiamento delle regole concorsuali non sono una politica. Mentre è evidente che l’università italiana ha bisogno di una riforma radicale. E non di una lotta a difesa dello status quo.
Sul sito gemello http://politicaleconomy.splinder.com altri commenti e materiali sull’università.

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Questo è il Diario dei due economisti dedicato all’Università pubblicato sul FOGLIO del 7 novembre (S.Ernesto)

Parlare di Università sta ormai diventando un esercizio imbarazzante. Le proteste contro i tagli prospettati dal governo, che se confermati diventeranno sostanziali dal 2010 hanno avuto un primo effetto. Quello di aver attirato sulle Università italiane un  mare di fango. Ancora più imbarazzanti sono le voci che circolano sulle possibili riforme, che come al solito si concentrano sul sistema di reclutamento. Si prospetta un nuovo giro del gioco dell’oca universitario: ritorno al sistema barocco dei concorsi nazionali già abbondantemente sperimentato nel passato. Poiché sempre di cooptazione si tratta, e non potrebbe essere altrimenti, l’alternativa sarebbe tra due sistemi ugualmente distorti e inefficienti: uno di controllo oligarchico della potenziale corruttela ed uno più democratico. Allora la strada più logica (in quanto tale considerata irrealistica) è un’altra: l’abolizione dei concorsi all’interno di un coerente disegno di riforma del sistema universitario. 

L’Università che proponiamo ha come cardine la ricerca della qualità attraverso la competizione sul mercato della formazione e della ricerca. La competizione richiede, al contempo, forte autonomia e responsabilità ed un sistema coerente di incentivi che agisca in modo virtuoso sui tre attori dell’Università: gli organi di governo, i professori e gli studenti.
Il fulcro del cambiamento necessario è l’abolizione del valore legale del titolo di studio. L’effetto di questo provvedimento è quello di costringere le università ad attrarre gli studenti in base alla reputazione dell’università, che ha valore sul mercato del lavoro. La reputazione deve pagare, perché vi sia incentivo al suo perseguimento. Serve quindi liberalizzare o concedere maggiore flessibilità nella fissazione delle “tasse” universitarie da parte delle singole università. Maggiore sarà la reputazione delle università maggiore sarà la loro possibilità di attrarre gli studenti migliori e di fissare tasse più elevate. Si tratta di un forte incentivo per le università a competere ed un incentivo per gli studenti ad essere esigenti o a trasferirsi ad altra università.

Naturalmente, una parte dei maggiori introiti servirà a finanziare borse di studio per studenti meritevoli con basso reddito. Più è alta la reputazione, maggiore sarà il prezzo di ingresso, maggiori saranno le risorse per borse di studio. Un’altra parte dei maggiori introiti dovrà essere a disposizione delle università per attrezzature o salari: cioè per finanziare altri incentivi. Per attrarre i migliori docenti le università devono avere riconosciuta una autonomia per differenziare i salari in base al merito sia scientifico sia didattico e non solo in base all’anzianità. Il finanziamento per questa differenziazione può avvenire anche attraverso fondi raccolti da privati, da fondazioni, con i proventi di brevetti e con attività scientifiche e didattiche che generano reddito. La differenziazione per merito è garantita dal meccanismo virtuoso: maggiore salario-migliori docenti- più  finanziamenti.

Allo stesso obiettivo dovrebbe contribuire un sistema di ripartizione dei fondi pubblici basato su tre indicatori: numero di laureati, risultati di collocamento nel mercato del lavoro, risultati di ricerca secondo standard internazionali.
A questo punto si possono abolire i concorsi. Il reclutamento dei docenti e le progressioni di carriera dovrebbero essere essenzialmente affidate alle università. Noi rispettiamo i buoni sentimenti verso amanti e familiari, ma si deve accettare che il conflitto di interessi tra reclutamento non meritocratico e danno collettivo per tutto il corpo docente e non docente faccia il suo corso.

Si dovrebbe anche modificare lo status dei docenti in modo tale da facilitare la mobilità, anche reversibile, tra diverse università, tra università e PA e tra università e settore privato. Quello di professore universitario deve essere un lavoro non un titolo.

Infine, le università devono poter fissare il numero massimo di studenti da ammettere con una selezione in base al merito e limitare la possibilità di prolungamento degli studi fuori corso (nella maggior parte dei paesi dopo un numero limitato di “fallimenti” lo studente deve abbandonare l’università).

In attesa che qualcosa accada, proponiamo uno scambio. Il governo rinuncia ai tagli programmati in cambio di una moratoria delle attuali tornate concorsuali. Quindi, niente concorsi, nemmeno all’insegna di un nuovo-vecchio sistema più congeniale alla cattura da parte delle lobby più potenti. (Si può anche lasciare alle università la responsabilità di decidere autonomamente, nell’ambito dei propri bilanci, su eventuali legittime aspirazioni di progressioni di carriera di chi già ha una posizione stabile, senza la foglia di fico dei concorsi).

L’unico gioco in città.

Con meno di 400 parole e poco più di duemila caratteri (spazi inclusi) Paul Krugman ha liquidato sul New York Times (10 Novembre – qui) il problema della politica fiscale degli Stati Uniti. Per confutarlo ne impiegherò un po’ di più, per ragioni “didattiche” (la versione breve è sul Foglio di oggi)
Paul Krugman, recente Nobel  per l’economia, è il guru liberal della scena americana. Guru discusso perché un po’fazioso, a dire il vero, tanto che per il momento non figura tra i consiglieri economici (di estrazione accademica) del presidente eletto. Obama sembra preferire un approccio più pragmatico e moderato. I suoi consiglieri tecnici sono due economisti “centristi” come Jason Furman (New York University, esperto di sicurezza sociale) e Austan Goolsbee (Chicago University, esperto di internet). Poi c’è Larry Summers, anche lui un po’ controverso ma per non essere del tutto “politicamente corretto”.
Comunque sia, a Paul Krugman è venuto il sospetto che la politica fiscale di Obama potrebbe essere troppo morbida. E perciò ha quantificato lo stimolo fiscale necessario alla ripresa dell’economia americana. Il 4 per cento del pil (che nel 2009 dovrebbe ammontare a circa 15 trilioni), ossia 600 miliardi di dollari. Una stima ottenuta usando la teoria e le relative equazioni che si trovano sui libri di testo di macroeconomia degli studenti del primo anno. Per la verità, sono equazioni che si rifanno ad un modello molto semplificato sul quale non c’è accordo tra gli economisti. Un modello secondo il quale nel breve periodo i livelli dell’occupazione e della produzione dipendono esclusivamente dalla domanda interna ed estera (consumi investimenti esportazioni). Secondo questo modello, quando prodotto ed occupazione divergono dai loro livelli normali e fluttuano al di sotto (recessione) o al di sopra (espansione) di essi, la politica economica discrezionale (politica monetaria e politica fiscale) è in grado di stabilizzarli, eliminando o attenuando in  tal modo gli effetti indesiderabili del ciclo economico. Nelle condizioni eccezionali che sta attraversando l’economia americana, ragiona Krugman, la politica monetaria è stata usata attivamente (attraverso ripetute ed energiche riduzioni dei tassi d’interesse),  sino al punto in cui perde la sua efficacia. Rimane la politica fiscale, l’unico gioco in città. E, secondo Krugman, bisogna giocare duro. Anche perché se il gioco fosse troppo duro, ossia se la politica fiscale fosse troppo espansiva, non ci sarebbe da preoccuparsi giacché in quel caso Bernanke potrebbe rialzare i tassi per raffreddare l’economia. Insomma, qualcosa di abbastanza simile al fallimentare “fine tuning” keynesiano degli anni settanta – ottanta che, in presenza degli shock petroliferi, non impedì né l’inflazione né la stagnazione ( e lasciò a molti paesi tra cui l’Italia l’eredità di un’inflazione persistente). Ma questi rischi non preoccupano Krugman. Ma quanto deve essere aggressiva la politica fiscale secondo Krugman? La risposta comincia dalla “legge di Okun” e dal tasso “naturale” di disoccupazione. Quest’ultimo è il tasso di disoccupazione che si accompagna al funzionamento “normale” di un economia (“in equilibrio” nel gergo degli economisti). In America è al 5 per cento, dice Krugman, o anche di meno. La legge di Okun – una relazione empirica negativa tra produzione e disoccupazione – stabilisce che ogni punto di disoccupazione al di sopra del normale provoca una deviazione di due punti percentuali del prodotto dal suo livello potenziale -il gap del pil (in effetti per gli Usa il coefficiente è pari a –1.84). Perciò con una disoccupazione attualmente al 6,5%, il gap sarebbe pari a tre punti percentuali. In realtà di più, dice Krugman, perché la disoccupazione sta aumentando rapidamente e secondo certe previsioni arriverebbe all’8,5 per cento il prossimo anno. Ergo, è necessario uno stimolo fiscale per chiudere un gap di 7 punti percentuali. Con un moltiplicatore pari a 2, conclude Krugman, il pacchetto fiscale deve essere pari almeno al 4 per cento del pil. Siccome nel 2009 Krugman lo stima a 15 trilioni, ecco i 600 miliardi di dollari di cui si diceva.
(Va notato, per inciso, che nel suo articoletto Krugman non specifica che tipo di interventi fiscali andrebbero concretamente attuati, né sembra considerare che a giugno il Congresso ha già varato un pacchetto di 300 miliardi di $ a sostegno dei mutui immobiliari e per il salvataggio di Freddie Mac e Fannie Mae – l’ AHRFP Act – e poi ad ottobre altri 700 miliardi per la ricapitalizzazione delle banche – l’EES Act . Aggiungendo gli altri interventi discrezionali  – salvataggio di Aig, etc. – ci si avvicina ai duemila miliardi di $, cioè più del 10% del pil Usa. Davvero un bel pacchetto fiscale a carico dei contribuenti americani)
Il ragionamento di Krugman è minato da vari errori, teorici e pratici. Il principale e decisivo, è che il tasso naturale di disoccupazione non è fisso. Se, come è probabile, in America esso è aumentato per ragioni strutturali, il ragionamento e il calcolo di Krugman perdono di significato. Inoltre le politiche di domanda non incidono sul tasso di disoccupazione “naturale”. Perciò lo stimolo fiscale, indipendentemente dalla sua entità, avrebbe effetti limitati sulla disoccupazione nella situazione attuale dell’America, in cui sono all’opera degli “squilibri” strutturali che richiedono aggiustamenti inevitabili (la crisi del mercato immobiliare, il collasso di quello finanziario, lo sbilancio del contro corrente, etc.). In ogni caso, la prospettiva di una riduzione temporanea del tasso di disoccupazione dovrebbe essere valutata alla luce del rischio di un aumento permanente dell’inflazione che viceversa Krugman ritiene trascurabile.   
Il ragionamento di Krugman non è applicabile nemmeno all’Europa. Intanto, il “metodo di calcolo” è inapplicabile perché la “legge di Okun” non funziona così bene come per gli Stati Uniti. Poi, perché in Europa la politica monetaria ha più gradi libertà, visti i livelli dei tassi d’interesse che infatti la Bce si appresta a tagliare di nuovo, dopo averli aumentati, non scordiamolo, sino a giugno.
Tuttavia, uno stimolo fiscale viene invocato anche per l’Europa, di fonte alla prospettiva di una recessione severa (vedi previsioni Oecd qui). Per la verità, fino ad oggi i governi europei si sono occupati di banche e ora si baloccano con progetti palingenetici di rifondazione dell’ordine finanziario mondiale. Progetti sbagliati perché le regole già ci sono (anche se ovviamente possono essere migliorate) ed inutili perché qualunque futuro ordine monetario internazionale dipende da Stati Uniti e Cina.
Più utilmente i governi europei potrebbero coordinarsi per realizzare rapidamente quel progetto di investimenti infrastrutturali comunitari di cui si parla da tempo. Poi ci sono le politiche nazionali. Qui l’Italia ha pochi gradi di libertà a causa del debito pubblico. Li dovrebbe usare tutti per stimolare gli investimenti privati, detassando i profitti. E magari allentando il vincolo del debito vendendo attività del suo patrimonio, laddove è possibile e conveniente.

________________


L’algebra della relazione tra disoccupazione e crescita


Il punto di partenza è una funzione di produzione di breve periodo in cui l’output Y è proporzionale per un fattore
a (la produttività del lavoro) al lavoro occupato L:


(1)        Y =
a L

 

Considerando che la disoccupazione U è la differenza tra la forza lavoro N e l’occupazione L, U = N – L, la (1) si può scrivere come:


            Y =
a (N – U)


e moltiplicando e dividendo il secondo termine per N

(2)        Y = aN auN, dove u = U/N è il tasso di disoccupazione (effettivo).

 

Questa relazione vale anche quando l’economia è in equilibrio, ossia:


(3)        Y* =
aN au*N,

dove Y* è il prodotto potenziale e u* il tasso naturale di disoccupazione. Sottraendo la (3) dalla (2) si ottiene la Legge di Okun:


(4)        Y
Y* = aN (u – u*)                                LEGGE DI OKUN

 

La quale può essere riformulata in forma dinamica (per tenere conto del fatto che la crescita del reddito riduce la disoccupazione solo quando eccede il tasso di crescita del reddito potenziale e ottenere un’equazione stimabile):


(5)        DY/Y-1 = b – aDu,


dove
D è l’operatore di differenza prima, b è il tasso di crescita del prodotto potenziale e a’ = aN/Y-1.
(la 5 si ricava prendendo le differenze prime della 2; trattare
a’ come un parametro è ovviamente un’approssimazione).


Si noti infine che la famigerata curva di Phillips si ricava sostituendo nella curva di offerta di breve periodo la Legge di Okun:

p = pe + g (Y – Y*), :   CURVA DI OFFERTA BREVE PERIODO
da cui usando la (4)

         p = pe + g(u – u*), dove g’ = gaN                CURVA DI PHILLIPS

dove p e pe sono, rispettivamente, il tasso d’inflazione effettivo e quello atteso.  

Di nuovo Keynes?

Su questo blog ho già più volte argomentato sulla ragionevolezza di adottare la cosiddetta “golden rule”. Ossia, il principio di non conteggiare nel calcolo del deficit di bilancio rilevante ai fini del rispetto del Patto Comunitario di Stabilità e Crescita (PCSC), il finanziamento di programmi di accumulazione di capitale pubblico in infrastrutture di base (fisiche ed immateriali). Da ultimo, vedi il post del 10 ottobre, Leve. Le infrastrutture di base contribuiscono alla produttività del capitale privato e dunque del sistema produttivo nel suo complesso e quindi sono complementari e non sostitutive dell’investimento privato. In Italia, dove si sta avviando un processo di federalismo fiscale, gli investimenti in infrastrutture dovrebbero entrare a far parte delle opzioni di “policy” scelte autonomamente dagli enti decentrati soggetti alla responsabilità fiscale. Tuttavia, questo tipo di investimenti pubblici, anche se "produttivo", non deve soffocare il principale capitale produttivo che è quello accumulato dalle imprese, il quale, insieme al lavoro e al progresso tecnico, costituisce il motore della crescita. Le infrastrutture di base sono necessarie alla crescita, ma non il toccasana delle emregenze e servono poco a curare le recessioni.
D’altra parte, il finanziamento di tali programmi di accumulazione di capitale pubblico assorbe una quota del risparmio privato che viene sottratta ad altri usi. Per tale motivo, oltre a ricorrere a tutti gli attrezzi del project financing et similia, andrebbe concretamente esplorata la strada di un programma di investimenti in infrastrutture finanziato con titoli di debito pubblico europeo. In queste settimane abbiamo ascoltato pompose dichiarazioni sulla voglia dei governi europei di rifondare il sistema finanziario mondiale e di intervenire energicamente per combatterne le conseguenze della crisi finanziaria sulla crescita. E sulla loro convinzione che l’obiettivo e il contesto richiedono un coordinamento ben più profondo che nel passato. In realtà, a parte gli aiuti alle banche, si è visto davvero poco sul fronte degli interventi anti-recessivi (compresi i movimenti molto cauti della Bce, che ha ridotto il suo tasso di riferimento “solo” di mezzo punto percentuale: a Francoforte evidentemente temono l’inflazione anche con un  petrolio a 57 $ il barile). E più che un vero coordinamento comunitario, quello che s’è visto è stato un coordinamento inter-governativo (soprattutto tra Francia, Germania, Italia e GB).

Ciò detto, resta da capire se la strada giusta da seguire siano le ricette keynesiane. Per quanto riguarda la capacità del modello keynesiano di spiegare questa crisi, non ci siamo. I prezzi delle attività finanziarie e le conseguenze di una loro flessione o caduta sul livello dell’occupazione e della produzione sono al centro dell’approccio di Keynes, che fu un  pensatore originale e per questo grande. Keynes era nel giusto quando descriveva il mercato azionario come inerentemente instabilie perché dominato dall’incertezza in un modo tale che una piccola quantità di cattive notizie, magari susseguenti ad una serie relativamente lunga di notizie analoghe, o anche salti casuali nei valori (prezzi) delle azio-ni, sarebbero bastati a causare un collasso del mercato – un crollo dei prezzi del tutto sproporzionato rispetto agli eventi esterni e ai cosiddetti fondamentali. (A questo riguardo rimando al post precedente sul modello multifrattale).
Tuttavia, la sua resta una spiegazione incompleta e insoddisfacente delle fluttuazioni dell’occupazione (e della produzione), perché essenzialmente monetaria. La caduta dei prezzi  delle attività finanziarie dipende, nella sua visione, da un aumento “esogeno” della domanda di moneta – e in questo caso la politica monetaria ha molte carte da giocare aumentando l’offerta di moneta. Ma la caduta dei prezzi può avere cause “endoge-ne” (strutturali), che Keynes non identifica distinguendole dalle altre, come ad esempio una riduzione delle aspettative sui valori (rendimenti) futuri delle attività, case incluse. Ed è proprio quello che è avvenuto nella attuale crisi, con il collasso della speculazione sugli immobili. Qui c’è stata una caduta del prezzo reale (relativo) delle case, ossia del prezzo monetario delle case in rapporto a quello di un paniere di beni di consumo. In tale caso, la politica monetaria espansiva diventa inevitabilmente inflazionistica.
Quanto alle ricette keynesiane di politica fiscale, pur adottando un atteggiamento pragmatico bisogna essere molto attenti.
Degli investimenti in infrastrutture ho già detto. Sullo stimolo dei consumi privati, i quali secondo Keynes contribusicono a far crescere l’occupazione, sono scettico. Questo stimolo è efficace solo se aumenta la domanda verso le imprese nazionali (che aumentano la produzione e quindi l’occupazione), ma non se questa si rivolge all’estero, come accade in un’economnia aperta. Alla fine, in un’economia globale, ciò che aumenta è il tasso d’interesse (il che scatena l’aumento dei markup e la riduzione dei prezzi delle attività reali, dei salari reali e dell’investimento). 
Ma, più in generale, ciò che mi preoccupa e che è associato alla rinascita della vulgata keynesiana*, è questo diffuso vagheggiare una salvifica inondazione di denaro pubblico, per scacciare il perfido capitale privato. 
L’obiettivo prioritario deve restare lo stimolo dell’investimento privato (attraverso crediti d’imposta e sussidi rivolti a nuove imprese, a nuove assunzioni, a nuove idee). Uno spostamento massiccio dall’investimento privato a quello pubblico rischia di soffocare quel dinamismo imprenditoriale, e l’attività innovativa che gli è peculiare, da cui dipende una crescita economica intensa e duratura. In Italia conosciamo bene quali sono le conseguenze dell’iperattivismo dello stato, del governo centrale, quando questo invece di incidere eventualmente sull’altezza degli argini che mantengono ordinato il corso di un fiume si trasforma nel fiume stesso, un fiume in piena che straripa. Paradossalmente, l’antidoto a questa catastrofe in Italia esiste già ed è il debito pubblico, la cui dimensione (104% del pil) è stato appunto il risultato dell’iperattivismo dello stato nel recente passato, ed impedisce di ripetere l’errore.    
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*Negli ultimi anni della sua vita Keynes (1883-1946) sembrò aver maturato un atteggiamento critico sulla piega che aveva preso il "modernist stuff, finito fuori strada, inacidito e banale" degli epigoni infervorati  dalla sua teoria – cfr. J.M. Keynes, "The Balance of Payments of the United States", The Economic Journal, marzo 1946, p. 186. E pare che ne avesse in mente un riesame.  

Casinò, ovvero i mercati multifrattali

Su quale teoria economica dobbiamo puntare per uscire dalla crisi (perché di una qualche teoria che orienti le decisioni pratiche non possiamo fare a meno)?

Né su quella “neo classica” – che è la teoria su cui è basato il modello dei mercati efficienti e tutti gli altri modelli di “gestione del rischio” palesemente falsificati dalla odierna crisi finanziaria ossia dal collasso dei prezzi delle attività – né su quella keynesiana. Quest’ultima ha il vantaggio rispetto all’altra che almeno le intuizioni di John Maynard Keynes sul rischio e la speculazione erano originali (non a caso JM Keynes cominciò proprio dall’incertezza scrivendo un Treatise on Probability ben prima della famosa General Theory). Tuttavia, la teoria dell’occupazione di Keynes è una teoria “monetaria” che trascura i fattori “strutturali” (il titolo completo della sua opera magna è appunto “The general theory of employment, interest and money”).

Edmund Phelps ne parla in un interessante articolo, al solito un po’ellittico, sul Financial Times di martedì scorso (scaricabile qui).

Tornerò sul tema. Intanto, consiglierei di approfondire una visione dei mercati finanziari alternativa al modello dei “mercati efficienti”. Non so se il modello multifrattale di Benoît Mandelbrot sia in grado di migliorare in modo significativo la nostra comprensione dei mercati finanziari. Per significativo intendo un contributo che ci aiuti ad attenuare l’impatto delle crisi finanziarie a grande scala come quella che stiamo vivendo. Non credo che questo tipo di crisi sia evitabile, credo che la possibilità del suo realizzarsi sia una proprietà endogena dei mercati finanziari. Se non altro l’approccio di Mandelbrot acuisce la nostra consapevolezza di tale possibilità e, di converso, rende critica l’infondata sicurezza che le cose non possano andare tanto male, cioè che le crisi “catastrofiche” abbiano una probabilità irrilevante. Secondo me la strada tracciata da Mandelbrot, una strada che cerca l’ordine nel disordine attraverso leggi di potenza, invarianze di scala, dipendenza dalla storia, etc., è promettente. Sintetizzando, i principi fondamentali del modello di Mandelbrot sono i seguenti (vedi B. Mandelbrot, The (mis)Behavior of Markets. A Fractal View of Risk, Ruin, and Reward, 2004, traduz. It. 2005, cap. 12):

 

  • i mercati sono turbolenti – i diagrammi dei prezzi sui mercati finanziari rivelano chiaramente la turbolenza;
  • i mercati sono molto più rischiosi di quanto presuppongono le teorie standard (neoclassiche);
  • i mercati sono discontinui – i prezzi saltano più che variare a poco a poco e guadagni e perdite tendono ad essere concentrati in intervalli di tempo ristretti;
  • i mercati sono intrinsecamente incerti e le bolle inevitabili;
  • i mercati sono scanditi da un tempo non lineare e possiedono una memoria a lungo termine che li rende ingannevoli (regolarità fittizie: variazioni persistenti – che si rafforzano a vicenda – o antipersistenti – che si contraddicono a vicenda);
  • di conseguenza, mentre le previsioni sui livelli dei prezzi sono molto azzardate, la probabilità delle variazioni (volatilità) future può essere stimata. 

Perciò, un vero casino(ò).

Una lettura complementare a Mandelbrot, può essere quella di Nassim Nicholas Taleb, Il Cigno Nero, Milano: Il Saggiatore.
Un sito finanziario ispirato in qualche modo dall’approccio di Mandelbrot è:

http://www.oanda.com