Panebianco’s remarks meet the Lucas Critique

The Italian political scene is now absorbed by the discussion and potential implementation of those structural changes needed to reform institutional and economic system to the aim of rescuing the country. In the foreground there is the change of the voting system.
Angelo Panebianco, political scientist (Università di Bologna) and media-columnist (Corriere della Sera), has claimed that every quantitative evaluation of the possible outcomes coming from electoral reform is irremediably flawed. Continue reading

Exercises in eclecticism

The Sveriges Riksbank (Nobel) Prize in Economic Sciences to Eugene Fama together with Robert Shiller and Lars Hansen may be viewed as an exercise in eclecticism, given their very different research programs.
According to Eugene Fama, expected returns are constant over time and thus unpredictable in the short run (because they randomly fluctuates around a constant – precisely the expected return), and market are efficient (prices reflect promptly all available information). According to Shiller expected returns are not constant over time (thus are predictable in the long run looking to the “fundamentals”, like the dividend/price ratio) and market may be not efficient.
I like eclecticism (even if it seems that never made anyone titled).
Truly, there is a common factor among these laureate economists: they are econo-metric men, in the sense that they used statistical techniques and economic  theory in their research.
I like econometrics (and used to agreebly practice it).
But here we come to an (epistemic) issue which I discussed in a preceding  post (click here). Empirical evidence. Specifically, the claim or the wishful thinking that empirical evidence may deliver the “last word”, resolving theoretical disputes thanks to its unbiased (even if tentative) answers. True, science proceeds by trial and errors, and in its field economics has no means but appealing to econometrics and other empirical tools to test hypotheses and falsify theories. Unfortunately, empirical results may be biased or inconclusive.
Let just take the moral of this Nobel story: markets may be efficient or they may be not efficient, but try to beat the market, darling.

The Austerity Shadow-Line

Cinque anni. Secondo il cancelliere tedesco Angela Merkel la crisi dell’Euroarea durerà ancora 5 anni. Se, per minimizzare, includiamo nel conto l’anno in corso, questo significa 2016. La dichiarazione è di qualche giorno fa, e conta di per sé naturalmente, data la rilevanza della fonte. Ma non è chiaro quanto, nel suo contenuto per così dire quantitativo, vada preso per una previsione, quanto per un’aspettativa, quanto per un obiettivo programmatico. E quanto, infine, ci sia di strategico, ossia rappresenti un artificio retorico da usare nei diversi contesti comunicativi, e nei vari tavoli del negoziato politico, a livello intercontinentale, europeo, interno. In ogni caso, il sottotesto di questa dichiarazione non è ambiguo: si tratta di un monito. Visto che la dichiarazione della Merkel è stato pronunciata al congresso regionale del suo partito (Cdu), come minimo possiamo decodificarla per farci un’idea sulla psicologia tedesca, o meglio su quali tasti il leader politico attualmente più importante di quel paese pigi per affrontare la psicologia dei suoi concittadini.
In ogni caso, la Commissione Europea ha fornito un qualche supporto “statistico” all’uscita di Angela Mekel, anche se ne ha decisamente ridimensionato il pessimismo. Nella Previsione Economica d’Autunno, la Commissione ha infatti fissato al 2014 la ripresa economica dell’euroarea. Per quell’anno la crescita dovrebbe raggiungere nella media d’anno un tasso dell’1,4 per cento. Nulla di elettrizzante, beninteso, dopo la frenata di quest’anno (-0,4 per cento) e il ristagno previsto per il prossimo anno (+0,1 per cento). La previsione della Commissione mette in luce un altro fatto che si può collegare all’uscita della Merkel: mentre la crescita dell’euroarea nel 2011 (+ 1,4 per cento) era dovuta essenzialmente alla spinta della Germania (+ 3,0%), al rallentamento di quest’anno e del prossimo, non si sottrae nemmeno l’economia tedesca – per entrambi gli anni è prevista una crescita anemica, inferiore all’1 per cento. Non solo, a dispetto delle politiche di austerità adottate a partire dal 2011 (quando il rapporto deficit/pil ha cominciato a scendere), il rapporto debito/pil dell’euroarea è previsto in aumento sia quest’anno sia il prossimo. Nel 2014 resterebbe stabile, attorno ad un livello superiore al 94 per cento (era all’80% nel 2009). 
Tuttavia, secondo noi la cosa più interessante di questa Previsione della Commissione Europea non si trova in questi dati di previsione, recepiti con clamore mediatico ma per nulla sorprendenti, anche se, dato il dominante clima d’incertezza, hanno sollecitato l’ipersensibilità dei mercati. La cosa interessante di questo documento della Commissione Europea si trova un po’ nascosta in un riquadro a pagina 41 dal contenuto apparentemente tecnico (“Forecast errors and multiplier uncertainty”). Vi si dice che la previsione di caduta del pil dell’euroarea per il 2012, rovescia drasticamente ciò che ci si aspettava nella primavera 2011, quando era stato previsto un tasso di crescita vicino al 2 per cento. Errori così grandi sono stati commessi dalla gran parte dei previsori, comprese le principali istituzioni internazionali. Come mai? Una possibile risposta è che tutte queste previsioni abbiano sottostimato la grandezza dei moltiplicatori fiscali di breve periodo, i quali misurano la variazione del pil in risposta ad una data variazione della politica di bilancio discrezionale, come conseguenza di una variazione nella spesa pubblica e/o nelle tasse. Nella visione teorica keynesiana, tutti i moltiplicatori fiscali sono maggiori di 1, anche se la loro grandezza è influenzata da vari fattori (propensione al consumo, aliquote fiscali, grado di apertura, ecc.). La visione teorica moderna ha rivisto drasticamente questa convinzione e l’evidenza empirica tende a confermare che, in condizioni normali, i moltiplicatori sono inferiori ad uno. In media, i moltiplicatori fiscali impliciti nelle simulazioni dei principali centri di previsione sono intorno a 0,5. La questione, come dicevamo, può apparire tecnica. Ma, con un gran numero di paesi che si trovano alle prese con programmi pluriennali di consolidamento fiscale, cioè con un prolungato indirizzo restrittivo della politica di bilancio, la questione è tutt’altro che tecnica: più sono piccoli questi moltiplicatori, più sono piccoli i costi del consolidamento. Il fatto è che è proprio la sincronizzazione in atto degli aggiustamenti fiscali, in particolare a livello dell’euroarea, a rendere gli effetti recessivi di breve periodo dei programmi di “austerità” più intensi. Anche perché, contemporaneamente, la politica monetaria non può essere usata per mitigare questi effetti, soprattutto nel contesto di un’unione monetaria e quando i tassi d’interesse sono già stati spinti verso il limite inferiore (in verità la Bce avrebbe ancora qualche margine, essendo il suo tasso di riferimento fermo ormai da tempo allo 0,75%).
Tutto questo significa che i programmi di “austerità”, necessari a ripristinare condizioni fiscali sostenibili e quindi favorevoli alla crescita, possono raggiungere il loro obiettivo programmatico e contribuire a ridurre l’incertezza a patto che la velocità dell’aggiustamento e la modalità del consolidamento siano equilibrati e tarati caso per caso. Di questo nella strategia europea, a cominciare col Fiscal Compact, non c’è traccia.
Se “austerità” è sinonimo di disciplina/responsabilità fiscale, c’è una linea d’ombra che separa le strategie “avventate” da quelle “ragionate”.

Too big to complete

149 milioni di russi, 203 di brasiliani, 1 miliardo e 300 milioni di indiani, 1 miliardo e 400 milioni di cinesi. La crescita economica farà si che nel 2020 questi cittadini, una volta aggiunti giapponesi (127 milioni) e americani (328 milioni), apparterranno alle sei più grandi economie del mondo. Ciò
in base alle stime di differenti istituzioni sulla crescita del prodotto lordo nel prossimo decennio. Quindi, i quattro paesi emergenti denominati Bric più Giappone e Usa. Con la Cina che diventerà la più grande economia del mondo. Le principali quattro economie europee, Germania Francia Regno Unito ed Italia, resteranno tra le prime 10, ma agli ultimi posti. Uno scenario alquanto differente da quello dell’anno appena finito: nel 2011 gli Stati Uniti sono stati ancora la più grande economia del mondo, il Giappone la terza, la Germania la quarta (e l’Italia l’ottava). Se poi prendiamo le stime del prodotto lordo a parità di potere d’acquisto, la risalita dei paesi emergenti (dove il livello dei prezzi è più basso e il cambio deprezzato) è ancora più rapida: la Cina scavalcherebbe gli Usa sin dal 2016 e l’India sarebbe già in quell’anno la terza economia mondiale anziché la nona. GDP_PPP_2016Per capire la dimensione del balzo dei paesi emergenti, bisogna riflettere sul fatto che nel 2011 il pil nominale della Cina, trasformato in dollari ai tassi di cambio di mercato, è stato ancora meno della metà di quello americano, che a sua volta è stato circa 8 volte più grande di quello indiano. Intendiamoci, si tratta di previsioni condizionali a lungo raggio, sensibili a ipotesi controvertibili sul tasso di crescita, sul tasso d’inflazione, sul tasso di cambio, ecc. Bastano anche piccoli ritocchi di queste variabili per avere nell’arco di un decennio modifiche sensibili del processo di convergenza. Non solo, il reddito individuale di europei, giapponesi e americani resterà ancora un miraggio per i cittadini dei paesi emergenti. Nel 2016, il reddito pro-capite di un russo (il più elevato tra quelli dei paesi Bric) sarà ancora un po’ più della metà (22 mila dollari) di quello di un italiano, che a sua volta sarà 17 volte maggiore di quello di un indiano. Tuttavia ciò che si può chiamare “potere economico” è misurato dal livello assoluto e non da quello pro-capite del pil (che viceversa è un indicatore del tenore di vita). La dimensione demografica è correlata con queste misure, ovviamente. Quella dei singoli stati europei è piccola al confronto di ciascuno dei paesi Bric. Da questo punto di vista, l’unione fa la forza. Il pil dell’Unione Europea, secondo le previsioni del Fondo Monetario, sarebbe ancora il più alto del mondo nel 2016.Gdp_int_2016 Il pil della sola Euroarea sarebbe l’82 per cento di quello degli Stati Uniti, e oltrepasserebbe quello della Cina del 28%. La quota sul pil mondiale dell’Europa (e di tutti i paesi avanzati) è calante nel tempo, per il progresso inarrestabile dei paesi emergenti e di quelli che un tempo si dicevano sottosviluppati. Nei primi anni novanta, l’economia dell’Unione Europea rappresentava un terzo di quella mondiale in termini di pil. Nel 2011, la quota è scesa ad un quarto. Nel 2016, il pil UE varrà un po’ più di un quinto. Tutto questo è sufficiente a spiegare perché i paesi europei, a cominciare dai maggiori (Germania in testa), avrebbero un interesse alla sopravvivenza, alla stabilizzazione e al rafforzamento della loro unione. Essere una potenza economica attribuisce molti vantaggi, a cominciare dal ruolo che si può esercitare nella fissazione delle regole internazionali. Il potere economico è strettamente connesso a quello politico e militare. Gli Stati Uniti sono in grado di indebitarsi più a buon mercato di qualsiasi altro paese perché il dollaro è divenuto la principale valuta di riserva internazionale, un “privilegio” che storicamente è toccato, di volta in volta, all’economia più grande del mondo. Tuttavia, l’area europea, anche nella forma d’integrazione più avanzata che è riuscita a raggiungere con la moneta unica, non è una vera unione come lo sono gli Stati Uniti. Resta un’aggregazione economica, statisticamente osservabile, ma è priva delle istituzioni e della coesione necessarie a trasformare il suo potere economico in potere politico internazionale. Le stesse istituzioni che sono state create sono lacunose. Ad esempio, la Banca centrale europea non può stampare euro per acquistare senza limiti titoli del debito pubblico (degli stati membri) – il “quantitative easing” che invece fanno gli Stati Uniti (e non solo). E questa lacuna è una delle cause dell’attuale crisi dell’euro. Dal canto suo, il Parlamento europeo non esprime un potere autorizzato a governare la politica fiscale dell’Unione. E questa, a sua volta, è una delle ragioni per le quali i poteri della Bce non sono quelli di una vera banca centrale. Questi limiti di fondo rendono incerto il futuro dell’Europa. Un’ovvietà, d’accordo, ma che non si capisce perché dovrebbe sfuggire ai deprecati mercati.

Slump and austerity

Su quali proiezioni di crescita per il prossimo biennio (2012-13) è basato l’aggiustamento fiscale congegnato dal governo Monti? È presumibile che questo aggiustamento, che si aggiunge a quello varato con la Legge di Stabilità a novembre, tenga conto del peggioramento del ciclo e quindi delle revisioni al ribasso del tasso di crescita. Per quanto riguarda gli indicatori del bilancio pubblico espressi come rapporto tra saldi e prodotto interno, un peggioramento ciclico impforecasts_dec11lica che vari sia il numeratore del rapporto – il disavanzo aumenta in assenza di correzioni – sia il denominatore del rapporto –  il pil nominale è più basso (a parità d'inflazione). Di conseguenza, l’indicatore peggiora.  Il che significa che la correzione fiscale deve considerare questi effetti ciclici per centrare gli obiettivi programmatici (espressi in percentuale del pil). In altre parole, la correzione di 20 miliardi contenuta nella manovra del governo Monti dovrebbe neutralizzare questi effetti ciclici consentendo, tra l’altro, il raggiungimento del pareggio di bilancio nel 2013. Secondo le ultime revisioni delle varie istituzioni internazionali (Ocse, Fmi, ecc.), il pil dell’Italia nel 2012 dovrebbe decrescere dello 0,5-0,6 % anziché crescere della stessa percentuale. Si tratta di una revisione importante perché riduce di un punto percentuale il tasso di crescita atteso nell’anno che sta per cominciare, trasformandone il segno da positivo a negativo. Da una crescita fiacca ad una recessione moderata. Per l’anno successivo, il 2013 (quando l’Italia dovrebbe centrare il pareggio di bilancio), è prevista una ripresa moderata, + 0,5-0,6 %. Tuttavia le prospettive di crescita dell’area dell’euro sono soggette ad una grande incertezza, con il rischio che per il nostro paese il deterioramento ciclico sia più rapido e più intenso e non si limiti a determinare una recessione moderata. Secondo le stime del Centro studi della Confindustria (Csc), la contrazione del pil nel 2012 sarà molto più severa, -1,6% (con una ripresa della stessa modesta intensità che era prevista nelle precedenti proiezioni, +0,6%, nel 2013). È assai curioso che questa revisione così marcata delle previsioni di crescita per il nostro paese, non abbia riflessi sugli indicatori della finanza pubblica secondo il Csc. Il disavanzo complessivo del settore pubblico in rapporto al pil stimato da Csc per il 2012 (1.5%) resta praticamente lo stesso di quello previsto dal governo a settembre, prima del peggioramento ciclico (1.6%), così come il risultato del quasi-pareggio di bilancio nel 2013 (0.1%). Evidentemente, la Confindustria e il suo centro studi ritengono che le manovre di aggiustamento fiscale non abbiano effetti recessivi o che tali effetti, nel caso si vericihino, non tocchino per qualche motivo il consolidamento fiscale. forecasts_deficit_dec11Perché ciò accada, è necessario che i saldi della finanza pubblica restino gli stessi, sia che il pil cresca, come si aspettava il governo sino a metà di quest’anno, sia che il pil si riduca come viene previsto oggi. Ricordo che il disavanzo complessivo (indebitamente netto) “programmatico” del settore pubblico è pari circa 25.3 miliardi nel 2012 e 1.7 nel 2013. Se tali saldi restassero gli stessi in presenza di una recessione, una riduzione del livello del pil reale (con un pil nominale inferiore al livello previsto), provocherebbe un limitato peggioramento del rapporto disavanzo/pil.
Al contrario, io penso che questi effetti recessivi ci siano, e siano tanto più marcati quanto più intensa è la recessione e quanto più squilibrato dal lato dell’aumento delle tasse è l’aggiustamenti fiscale, e che inoltre essi tocchino i saldi programmatici influenzando il processo di consolidamento fiscale in modo da rendere necessari ulteriori correzioni. Si veda il post successivo.

Shuldenbremse? Nein danke. Or, Don't tie your hands, please.

A constitutional rule laying down the debt brake is a controversial matter, as we have seen in the post of December 3rd. It is what the Germans call “shuldenbremse”, and we Italians could translate as “freno all’indebitamento”.(The Economist of this week ironically asks if this German expression will enter in the Italian or French languages as kindergarten has become part of English). Constitutional rules introducing a balanced budget provision as a mean of debt braking are not a novelty. Switzerland has introduced a mid-term “shuldenbremse” (i.e. cyclically adjusted) since 2001. In 2009 Germany has introduced in his Constitution a close-to-balance budget rule, according to which the federal government must maintain its cyclically adjusted deficit at 0.35% of Gdp from 2016 onward, whereas the 16 Lander must eliminate theirs completely by 2020. It is worth noting that, before this constitutional amendment, in Germany it is already operating a golden rule, that is a budget rule limiting the public net borrowing to public net investment (the 2009 change rules out the golden rule). 
The reason why a debt brake of this sort is controversial is explained in the aforementioned post of Sofia.
To illustrate the difficulties whith the idea of a structural balanced budget look at the picture. structural-deficit_5The graph shows the 2008-2014 path of structural deficit/gdp ratio for five European countries according to the estimates of Imf Fiscal Monitor (September 2011, Table 3, pag.66). How it is easily seen, Italy reaches a zero structural deficit, i.e. a cyclically adjusted balanced budget, in 2013 (look at the broken circle). Note that none of the other countries obtains a similar result, except Germany which however reaches this target a year after, in 2014. These figures are of course based on information available before the publication of this issue of Fiscal Monitor (September 2011). We don’t know if these figures incorporate for Italy the effects of the fiscal adjustment for 2012-14 delivered during the summer by the Berlusconi government. We remember that according to this fiscal package (tax hikes and spending cuts for about 60 billion of euros in the 3-years period), Italy was expected to reach an actual (i.e. not cyclically adjusted) balanced budged, initially targeted for 2014, in 2013. Now the new Italian government of Mario Monti has devised an additional fiscal adjustment (around 20 billions) to reach the planned targets (balanced budget in 2013). This new correction was necessary in part for the recognition that the cycle is worst than expected and thus growth perspectives worsened. This shows how the economic cycles of real life are not a smooth succession of negative and positive phases (slumps and recoveries) easily predictable. Economic cycles are irregular, and may become basically erratic, thus unpredictable, in some “disturbed” states of nature (to which real life sometimes converges). Moreover, Imf estimates of structural balances reflect the analysis and the guesses of the Institute and may be biased.
The requirement of keeping balanced (or close to balance) the Government budget during the economic cycle may be fulfilled only if future economic conditions are correctly predicted. Given that forecasting is an imperfect science, it will be always disagreement on the cyclical phase the economy is crossing and the path it is covering. In this specific case, the big trouble is about the notion and the estimation of potential output – the structural government budget is what the budget would be if domestic output were at potential output. The fact that once upon a time this concept was labeled as full-employment output may provide a vague but simple indicator of how an occult discipline might be that of determining potential output. According to economic reasoning, full employment of resources may co-exist with some unemployed inputs, provided that all markets, and especially the labor market, clear. Because these unemployed inputs might be non-trivial statistical quantities, at some point in time it seemed preferable to speak of “potential” output instead of “full-employment” output.

In conclusion, even if the cyclically adjusted balanced budget is, in general terms, a reasonable way to make compatible short-run stabilization and long-run concerns about debt sustainability and national saving, it is difficult to implement and thus tricky to enforce. If the balanced budget becomes a constitutional rule, extra problems arise because of possible judicial conflicts. What happens if, for example, the government thinks that the output gap, i.e. the deviation of actual from potential output, is negative (a slump: output below potential) this year and the central bank argues that it is positive (a recovery: output above or in line with potential)? Not only this uncertainty may be exploited by politics, with a polarization between spendthrift politicians and austerity-minded politicians, but the clash will inevitably spills over the courts. 

Structural budget, balanced budget and Constitution

Nel Diario uscito ieri sul Foglio (vedi post precedente) si accenna ad un argomento contrario alla proposta (in discussione dal Parlamento italiano) di rendere obbligatorio il pareggio di bilancio, riformando a questo scopo la costituzione. Questo argomento si basa sul ruolo degli stabilizzatori automatici, quei meccanismi incorporati nei bilanci pubblici che, senza bisogno di interventi discrezionali da parte dei policymaker, contrastano il ciclo economico. In una recessione, le entrate (imposte dirette e indirette) si riducono in modo automatico al ridursi del pil (e quindi del reddito) mentre le uscite (trasferimenti) aumentano all’aumentare della disoccupazione. Il contrario avviene nelle fasi espansive del ciclo economico. Perciò, nel caso di una recessione, l’obbligo costituzionale del pareggio di bilancio costringerebbe i policymaker a contrastare questi effetti anticiclici automatici, ossia ad aumentare le tasse o a tagliare le spese (o entrambe le cose) con il rischio di aggravare gli effetti recessivi. In altri termini, i policymaker, ossia il governo e i parlamenti, dovrebbero attuare una politica fiscale discrezionale prociclica. Un assurdo dal punto di vista economico e del buonsenso.
Il pareggio di bilancio non è di per sé un principio sbagliato, ma deve essere interpretato come un vincolo di medio periodo, ovvero si dovrebbe considerare il bilancio “corretto” per il ciclo economico, ossia quello che gli economisti chiamano bilancio “strutturale”, che è quello chbe si determinerebbe se il pil si trovasse al suo livello potenziale. In altri termini, il pareggio di bilancio dovrebbe essere ottenuto come media tra i deficit in corrispondenza delle fasi negative del ciclo) e anni di surplus (in corrispondenza delle fasi positive del ciclo economico). Ad esempio se in un dato anno si verifica una recessione e l’anno successivo una ripresa, in quest’ultimo si dovrebbe ottenere un surplus di dimensione tale da compensare il deficit dell’anno prima in modo da ottenere un pareggio di bilancio nella media dei due anni.
Pertanto, per aver senso economico, l’emendamento costituzionale che prescrive il pareggio di bilancio dovrebbe misurare il rispetto dell’obbligo considerando i saldi finanziari del bilancio pubblico depurati delle oscillazioni del ciclo economico. Il processo di bilancio diventerebbe complicato da implementare e vi sarebbe un elevato rischio di contenziosi giudiziari.  

Basta guardare alla tabella di sotto per rendersi conto del problema. La tabella riporta gli indicatori di finanza pubblica contenuti nella Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza 2011 che è stato approvato dal Parlamento nell’atto finale del governo Berlusconi (Legge dei Stabilità). Com’è noto l’Italia si è impegnata a raggiungere un (quasi) pareggio di bilancio nel 2013. Un impegno ribadito dal nuovo governo. La tabella è basata sugli effetti delle correzioni apportate dalla due manovre della passata estate, aggiornati al settembre 2011. Come si può notare, per effetto di queste correzioni – circa 60 miliardi di € nel triennio 2012-2014 (corrispondenti a 3.5 punti percentuali di pil nell’anno finale) – nel 2013 verrebbe raggiunto un “sostanziale” pareggio di bilancio, nel senso che il deficit sarebbe appena di 1.7 miliardi (lo 0,1 % del pil), e si avrebbe un modesto surplus (3.4 miliardi, 0,2 % del pil) l’anno dopo. fin-pub_2Tuttavia se si tiene conto degli effetti del ciclo economico, e quindi si misura il bilancio pubblico strutturale, ossia quello che si determinerebbe se il pil si trovasse al suo livello potenziale, nel 2013 si avrebbe un surplus di 10 miliardi anziché un deficit di 1.7 miliardi. Supponiamo ora che il prossimo anno vi sia un andamento macroeconomico negativo. I saldi indicati nella tabella per il triennio 2012-14 sono ovviamente previsioni condizionali, basate cioè sul verificarsi di varie condizioni. Tra queste, un’ipotesi fondamentale riguarda la crescita reale, che nel 2012 era attesa pari allo 0,6 per cento. Non un granché, ma pur sempre un progresso. Cosa accadrebbe se, viceversa, nel 2012 il pil anziché aumentare dello 0,6 % diminuisse dello 0.6% (una recessione), che corrisponde ad una differenza di un punto percentuale?
(Per inciso, un’ipotesi del genere non sarebbe accademica, visto che Ocse ha rivisto al ribasso le previsioni per il pil dell’Italia correggendo la precedente proiezione grosso modo di un punto percentuale – ossia l’Ocse prevede effettivamente una recessione per l’Italia il prossimo anno).  

Dunque, nel caso il prossimo anno il pil reale si riducesse (dello 0.6%), il saldo complessivo strutturale sarebbe vicino al pareggio sin dal 2012. Viceversa, il saldo complessivo effettivo (non corretto per il ciclo) esibirebbe un deficit peggiore di quello della tabella. Come conseguenza, i policymaker dovrebbero intensificare l’aggiustamento, aumentando la dimensione delle correzioni, per raggiungere gli obiettivi programmatici e in tal modo aggraverebbero gli effetti della recessione. La correzione dovrebbe essere ancora più intensa (e recessiva) se, oltre al peggioramento della crescita reale, vi fosse il deterioramento delle condizioni di finanziamento del debito. I saldi della tabella sono infatti ottenuti ipotizzando un costo medio del debito oscillante tra il 4.5% e il 4.9% nel triennio 2012-14. Un costo medio del debito superiore – ad esempio, vicino in  media al 6%) farebbe crescere la spesa per interessi di oltre 1.5 punti percentuali di pil in media nel triennio, rendendo ancora più onerose le eventuali correzioni necessarie a raggiungere e mantenere l’obiettivo del pareggio di bilancio.
[Ovviamente gli indicatori della finanza pubblica  possono essere migliorati da un dato aumento dell'inflazione che genera, coeteris paribus, un incremento delle grandezze nominali: nel caso di un peggioramento della crescita reale, un dato incremento dell'inflazione lasciarebbe invariato il pil nominale. Nel nostro esempio il deflatore del pil dovrebbe crescere nel 2012 del 3%. anziché dell 1,9% ipotizzato nei documenti governativi, per compensare una riduzione del tasso di crescita del pil reale di circa un punto percentuale – dal + 0,6% al – 0.5%. Inoltre sin tanto che le variabili che entrano nelle varie poste del bilancio pubblico non sono indicizzate -come capita agli imponibili sui quali vengono calcolate le tasse sui redditi personali e quindi viene determinato l'ammontare del gettito delle imposte dirette- una maggiore inflazione determina vari effetti sul bilancio pubblico e sul debito]

Austerity is not the answer

In Italia, prima del 1981, la spesa pubblica in deficit era in buona parte finanziata con emissione di moneta da parte della Banca d’Italia. Ciò si traduceva in alta inflazione, perdita di competitività e svalutazioni periodiche. Il meccanismo era la risposta ai primi shock petroliferi e la conseguenza della resistenza dei cittadini ad accettare il fatto che per pagare di più il petrolio sarebbe stata necessaria una riduzione dei loro redditi reali. La spesa pubblica in deficit sosteneva i redditi nominali, ma l’inflazione e la svalutazione li riportavano a livelli vicini all’equilibrio. Non era certo una situazione sana, ed il controllo della spesa pubblica è divenuto da allora un obiettivo importante per riportare sotto controllo l’inflazione. par_deb_it2Tuttavia, l’Italia non cresceva a debito, perché la tassa da inflazione operava con una certa efficacia. Il debito pubblico si impenna in Italia solo dopo il cosiddetto divorzio del Tesoro dalla Banca d’Italia, con il quale si interrompe la monetizzazione del deficit. Si riduce pure l’inflazione, grazie anche al blocco della scala mobile, deciso con l’assenso della Uil e della Cisl ma con l’opposizione della Cgil  e del Pci. Tuttavia, questa correzione nella politica monetaria non conseguì l’effetto di costringere alla riduzione dei deficit di bilancio. Almeno ciò non avvenne prima che in dieci anni, dal 1982 al 1993, il debito pubblico italiano passasse dal 60 per cento al 120 per cento del pil. Ricordiamo certi fatti, ormai lontani, non tanto per un’inutile polemica su scelte di politica economica, monetaria e di bilancio che condussero al disastro, ma perché si tratta di un tipico esempio di eterogenesi dei fini. Un rigore monetario che, in quel contesto, pose sulle spalle dell’Italia e delle sue generazioni future il peso che ancor oggi ci opprime.  Da allora l’Italia entra in una fase di declino del ritmo di crescita, lo stock accumulato di debito pubblico rimane sostanzialmente invariato, mentre la necessità di mantenere elevati avanzi primari per compensare l’onere del finanziamento del debito determina una costante pressione recessiva sull’economia italiana.
Ad un nuovo, e ancor più drammatico episodio di eterogenesi dei fini stiamo assistendo a livello europeo. L’esplosione dei debiti sovrani in tutta Europa, come in America, viene dalla risposta data alla recessione economica per salvare i sistemi bancari e per chiudere rapidamente la crisi. Ma l’austerità è la via d’uscita nel breve periodo?  Il doppio rigore, monetario e di bilancio, non è di per sé una risposta e lo dimostrano i segnali sempre più intensi di un possibile passaggio da un rallentamento della crescita ad una nuova recessione. Se tutti i paesi cercano contemporaneamente di ridurre i debiti, sia pubblici sia privati, non può che aversi una deflazione. Abbiamo ascoltato in questi anni la tesi di chi sosteneva che avrebbero prevalso gli effetti espansivi, non keynesiani, di un rapido consolidamento fiscale. L’eliminazione dei deficit e la riduzione dei debiti avrebbero ridotto l’incertezza dei mercati sul futuro spingendo famiglie ed imprese a maggiori consumi e maggiori investimenti. Ciò non è avvenuto né sta avvenendo, e quelli che lo avevano teorizzato ora ammettono di essersi sbagliati (vedi Roberto Perotti sul Sole di qualche giorno fa). Al contrario, le scommesse sui default sovrani si fanno più forti quanto più la diminuzione del tasso atteso di crescita dell’euroarea rafforza le previsioni di insostenibilità di lungo periodo dei debiti stessi. Ma se queste previsioni di recessione si rafforzano, e con esse l’attesa di default, aumentano di conseguenza i tassi richiesti per finanziare questi debiti e si accelera il processo perverso di aspettative che si auto-realizzano. Queste considerazioni non mutano il fatto che quel che dovrebbe fare immediatamente la BCE e la politica europea non viene deciso in Italia, in un momento poi di particolare debolezza del nostro paese. La politica di bilancio e monetaria decisa in Europa, errata (come noi crediamo) o meno che sia, rappresenta per l’Italia il contesto in cui è costretta ad operare. Ciò che l’Italia può fare è cercare di mutare le aspettative circa la sostenibilità del proprio debito e conquistarsi una riduzione dei tassi di interesse richiesti dal mercato e quindi uno spazio per investimenti che riducano le aspettative di recessione. Poiché è escluso rallentare l’annullamento del deficit e non si può andar oltre nella manovra restrittiva sul bilancio corrente senza avere un impatto negativo sulle aspettative di sostenibilità, non c’è altro via che far contare oggi riduzioni di spesa future, cioè tentare di ridurre il valore attuale dei deficit futuri. A questo fine serve un’azione immediata sull’età pensionabile. Cosa che non significa, come afferma erroneamente il ministro Bossi, togliere soldi ai pensionati. Non varrebbe nemmeno la pena menzionare le affermazioni di questo ministro, se non fosse che dalle sue opinioni sembrano dipendere le scelte di altri ministri le cui opinioni, viceversa, sono ascoltate dai mercati.

Dal Diario di due economisti del 30 settembre