Macroeconomic management and the public interest

In una delle sessioni dell’ultima riunione annuale della American Economic Association (San Diego, 4-6 Gennaio), Donald Kohn (già vicepresidente Fed) ha affermato senza giri di parole che “gli ultimi anni hanno chiarito quanto poco sappiamo effettivamente”. Ammissione onesta, indubbiamente, ma di sicuro assai poco confortante. In effetti, a cinque anni dall’inizio della Grande Recessione, gli economisti stanno ancora questionando per trovare soluzioni all’aumento del debito pubblico e agli elevati tassi di disoccupazione che la crisi ha provocato. In base all’approccio convenzionale, questa situazione crea un dilemma classico. Il primo problema richiede, infatti, disciplina fiscale, ossia politiche restrittive (tagli di spesa/aumenti di tasse), giacché un elevato debito pubblico frena la crescita economica. Il secondo problema richiede, al contrario, politiche espansive, perché la debole domanda aggregata fissa il pil ad un livello inferiore al suo potenziale. Allora, per provare a stabilizzare il pil intorno al suo livello potenziale, occorrerebbero misure di stimolo: aumenti di spesa/tagli di tasse e un’espansione monetaria. Il dilemma deriva dal conflitto tra questi obiettivi, o meglio tra le politiche che dovrebbero permettere di raggiungere tali obiettivi. Per la verità, gli effetti del consolidamento fiscale potrebbero essere temperati da una politica monetaria accomodante. Ma ecco che qui sorgono due complicazioni che mettono ancora più in difficoltà la visione tradizionale.
Primo, con i tassi d’interesse spinti ai più bassi livelli possibili (vicino lo zero), la politica monetaria ha esaurito le sue munizioni anticicliche convenzionali (la famigerata “trappola della liquidità” keynesiana), e quelle non convenzionali non sembrano avere effetti straordinari, come mostrano gli esiti delle ripetute energetiche tornate di quantitative easing della Fed e di quelle più prudenti della stessa Bce. In altre parole, il meccanismo di trasmissione della politica monetaria, inceppato dalla crisi finanziaria (le banche sono riluttanti a concedere prestiti), non è stato sbloccato dal quantitative easing, o, perlomeno, quest’ultimo è servito solo a non far peggiorare le cose, senza riuscire a migliorarle. Qui, naturalmente, si potrebbe discutere se questo parziale insuccesso sia stato un risultato inevitabile o sia dipeso dalla dimensione inadeguata dell’intervento. La verità è che, nel nuovo scenario della politica monetaria, gli economisti sono arrivati in una “terra incognita”. 

Secondo, i programmi di austerità, che rappresentano la quintessenza della virtù fiscale, e che sono stati adottati in forme energiche (sia nella dimensione che nel timing) soprattutto in Europa, hanno provocato effetti recessivi superiori a quelli attesi. Il problema è stato sollevato, anche se in modo alquanto tecnico, da numerosi osservatori, compresi le principali istituzioni internazionali come l’Fmi, l’Ocse e la stessa Commissione europea. Da ultimi Olivier Blanchard (capo economista del Fmi) e Daniel Leigh hanno confermato che i moltiplicatori fiscali assunti comunemente si sono rivelati largamente sottostimati (“Growth Forecast Errors and Fiscal Multipliers”, January 2013). Questa sottostima spiega perché la gran parte dei previsori aveva associato i programmi di consolidamento fiscale, intrapresi dai vari paesi in particolare in Europa, a tassi di crescita attesi superiori a quelli effettivamente realizzatisi. In media, il valore dei moltiplicatori fiscali, usati e validati per i tempi normali, era ipotizzato attorno a 0,5. I fatti hanno dimostrato che, nei tempi di crisi, i moltiplicatori fiscali sono più alti e superano largamente l’unità.

Ovviamente, gli effetti di breve periodo sulla domanda aggregata della politica fiscale sono solo uno dei vari fattori che devono essere considerati nel determinare la grandezza e il ritmo appropriati del consolidamento fiscale. E il fatto che i moltiplicatori fiscali possano essere maggiori di quanto atteso (e sperato) non implica che il consolidamento fiscale sia indesiderabile. Semplicemente, è necessario, a causa degli elevati livelli del debito pubblico e le prospettiche pressioni demografiche sulle finanze pubbliche.
La morale è che, viste queste incertezze degli economisti, il compito dei responsabili della politica economica è ancora più impegnativo del solito. Qui, secondo noi, sta l’essenza del dibattito, che sembra appassionare il nostro paese in modo morboso, sul ruolo dei tecnici e su quello dei politici. Questi ultimi sono, per l’appunto, i responsabili della politica economica. Oggi, più che in situazioni normali, la scelta delle politiche ricade sulle spalle dei politici. E le scelte politiche si fanno in base alle visioni politiche. Il punto di vista liberale, pro-mercato e pro-crescita, predilige politiche di stabilizzazione fondate su interventi monetari preventivi e su politiche fiscali che riducano la pressione fiscale nelle fasi di recessione e la spesa pubblica durante le fasi di espansione. Poiché il taglio delle tasse ha anche un effetto di offerta, tale approccio ha anche ripercussioni sulla crescita di lungo periodo. Col passare del tempo, le dimensioni del settore pubblico si riducono. Il punto di vista contrario, rovescia questo risultato (e di conseguenza l’indirizzo delle politiche) Gli elettori italiani dovrebbero poter scegliere tra queste due opzioni. Per farlo, le forze politiche che si confrontano oggi nel paese dovrebbero esprimere in modo chiaro l’adesione all’una o all’altra, e indicare i mezzi per raggiungere i fini enunciati (esplicitando una qualche base quantitativa controllabile dei vari programmi per saggiarne la coerenza). Ciò avverrebbe naturalmente se i politici avessero come motivazione dominante l’«interesse pubblico». La scuola della public choice ci ha mostrato quali siano le conseguenze per la politica economica quando i politici sono considerati persone normali, che reagiscono agli incentivi macroeconomici. La campagna elettorale che si sta sviluppando in vista delle elezioni di febbraio, sulla falsariga di quelle del recente passato, è una dimostrazione sotto gli occhi di tutti di quanto questa intuizione di Jim Buchanan ed associati resti essenziale per valutare la portata e i limiti della politica economica.

versione estesa de La Trappola, diario dei due economisti, Il Foglio – venerdì 11 2013.
Su questo questo argomento vedi anche i post: Louise-Michel del 3 aprile 2009 qui, DEF (Davvero E’ Finita?) del 21 aprile 2012 qui, e The Austerity Shadow Line dell’11 novembre 2012 qui.

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