Lessons from Latvia (why fiscal analysis is darned hard)

BALTIC_2LATVIA (Lettonia) represents today a flamboyant case of how assessing the effects of fiscal policies may translate in an arbitrary exercise. In fact, in recent year Latvia became the schizo symbol either of a “successful crisis resolution” (Alund, 2015[i]) or of a “depression-level slump” (Krugman, 2013[ii]). Indubitably, such a diametric judgement is a sensational evidence of the unresolved difficulties faced by fiscal analysis, or, using the Leeper’s words (2015[iii]), of how “fiscal analysis is darned hard”. Let we consider the experience of the 3 Baltic countries. Continue reading

M4N or TINSTAAFL (“money for nothing” or “no free lunch”)?

Primary-balance_ITA-HEL It seems that, regarding to the so-called Greece Crisis, there are at least 2 possible alternative narratives. These alternative narratives can be epitomized as follows:
1) M4N, that is Money For Nothing, according to Mr. Mark Knopfler (1985)
or
2)TINSTAAFL, that is There Is No Such Thing As A Free Lunch, according to Mr. Milton Friedman (1975). Continue reading

Krugman unbound

Un crescendo di critiche al limite della contumelia. Paul Krugman scatenato.
Nel giro di poche settimane il guru ultra-keynesiano ha attaccato dal suo blog vari rispettabili e accreditati economisti. E lo ha fatto senza giri di parole. Ad Alberto Alesina di Harvard  ha dato del “morto vivente” per la teoria dell’austerità espansiva (13 Marzo). A John Taylor e John Cogan, entrambi di Stanford e Hoover Institution, ha rinfacciato (19 Marzo) di usare argomenti disonesti nel difendere le strategie di consolidamento fiscale (ed in particolare quella di Paul Ryan). A Eugene Fama e John Cochrane, entrambi di Chicago, ha consigliato di andarsi a rivedere la croce keynesiana per capire come funziona la politica fiscale (27 Gennaio).K-Cross
Krugman pensa che gli errori dei suoi eminenti colleghi, e sul fatto che si sbaglino  lui non nutre alcun dubbio, dipendano da un regresso delle conoscenze. Addirittura un ritorno al Medio Evo, all’Età Buia della Macroeconomia:  “We’re living in a Dark Age of macroeconomics. Remember, what defined the Dark Ages wasn’t the fact that they were primitive — the Bronze Age was primitive, too. What made the Dark Ages dark was the fact that so much knowledge had been lost, that so much known to the Greeks and Romans had been forgotten by the barbarian kingdoms that followed”. E per Krugman i barbari sono tutti coloro che hanno dimenticato o non conoscono o non prendono sul serio Keynes. Il Keynes della General Theory. Nel mondo che stiamo vivendo, dice Krugman, è evidente che esiste una grande quantità di risorse non utilizzate e che ciò dipende da una carenza della domanda effettiva, come la chiamava Keynes, ossia della domanda aggregata come la definiamo oggi. Sempre in questo mondo, aggiunge Krugman, è evidente che la politica monetaria non può essere usata visto che il tasso d’interesse ha raggiunto il suo limite inferiore. Ergo, in un mondo siffatto, conclude Krugman, bisogna usare la politica fiscale discrezionale a piene mani. Ossia aumentare la spesa pubblica e infischiarsene del deficit e del debito pubblici. Altro che stabilizzatori automatici. Altro che consolidamento fiscale. Altro che austerità.
Come sempre accade col Krugman polemista, ragionamenti seri sono mischiati con argomentazioni opinabili e con uno stile assertivo che non lascia spazio al confronto costruttivo. La critica a Taylor e Cogan è un esempio di questo approccio e approfondire un po’ la questione aiuta a chiarire anche il nostro pensiero. In un paper con Volker Wieland e Maik Wolters, Taylor e Cogan mostrano gli effetti benefici per l’economia americana, sia di lungo periodo sia di breve periodo, di un programma decennale per ridurre il deficit di bilancio e riportarlo in equilibrio (“Fiscal Consolidation Strategy”, Journal of Economic Dynamics and Control, 37-2013). I risultati di Taylor ed associati sono basati su di un modello strutturale, cioè uno schema in cui contano i principi essenziali della teoria economica: costi opportunità, efficienza, aspettative, incentivi. Un piano graduale e credibile di consolidamento fiscale fa aumentare il pil, secondo Taylor ed associati, perché la gente si rende conto che la riduzione delle spese dello stato significa minori tasse e quindi maggiore reddito disponibile. Il punto è se tali effetti sono immediati e tali da far uscire l’economia dal suo stato di depressione. Taylor ed associati lo credono possibile. I fattori cruciali sono le aspettative e gli incentivi della gente. Il consolidamento fiscale implica un cambiamento permanente nella dinamica della spesa pubblica, le minori tasse implicano incentivi meno distorti verso il lavoro, l’investimento e la produzione. Se la gente si fida, e crede che effettivamente il bilancio pubblico sarà ricondotto in equilibrio, gli effetti saranno immediati, la crescita maggiore sin da subito.
Noi siamo simpatetici con questo approccio strutturalista, tuttavia siamo scettici sul fatto che il consolidamento fiscale possa agire anche come rimedio anticiclico. E poi dipende dalle condizioni e dalle circostanze. Per un paese come l’Italia, e a prescindere dai vincoli europei, la riduzione del disavanzo, la stabilizzazione del debito e quindi la sua riduzione (in rapporto al pil) sono necessari per rendere possibile la ripresa della crescita economica. Tuttavia, il programma di consolidamento fiscale deve essere graduale e realistico. La riduzione delle spese deve consentire una riduzione sostenibile delle imposte e deve essere trovato il modo e lo spazio per sostenere anche attraverso il bilancio pubblico i fattori che fanno aumentare il prodotto potenziale. Soprattutto in una fase di disoccupazione prolungata, il rischio è che le perdite non riguardino solo il prodotto corrente ma anche quello potenziale, attraverso il deterioramento del capitale umano (che è uno dei pilastri della crescita economica). Quindi, anche per questi motivi, la promozione del capitale umano dovrebbe essere una priorità.  Da non sacrificare ai vincoli del consolidamento fiscale.

Il grafico della Croce Keyensiana è tratto dal mio manuale introduttivo di macroeconomia che uscirà a giorni per i tipi dell’editore Giappichelli  

Macroeconomic management and the public interest

In una delle sessioni dell’ultima riunione annuale della American Economic Association (San Diego, 4-6 Gennaio), Donald Kohn (già vicepresidente Fed) ha affermato senza giri di parole che “gli ultimi anni hanno chiarito quanto poco sappiamo effettivamente”. Ammissione onesta, indubbiamente, ma di sicuro assai poco confortante. In effetti, a cinque anni dall’inizio della Grande Recessione, gli economisti stanno ancora questionando per trovare soluzioni all’aumento del debito pubblico e agli elevati tassi di disoccupazione che la crisi ha provocato. In base all’approccio convenzionale, questa situazione crea un dilemma classico. Il primo problema richiede, infatti, disciplina fiscale, ossia politiche restrittive (tagli di spesa/aumenti di tasse), giacché un elevato debito pubblico frena la crescita economica. Il secondo problema richiede, al contrario, politiche espansive, perché la debole domanda aggregata fissa il pil ad un livello inferiore al suo potenziale. Allora, per provare a stabilizzare il pil intorno al suo livello potenziale, occorrerebbero misure di stimolo: aumenti di spesa/tagli di tasse e un’espansione monetaria. Il dilemma deriva dal conflitto tra questi obiettivi, o meglio tra le politiche che dovrebbero permettere di raggiungere tali obiettivi. Per la verità, gli effetti del consolidamento fiscale potrebbero essere temperati da una politica monetaria accomodante. Ma ecco che qui sorgono due complicazioni che mettono ancora più in difficoltà la visione tradizionale.
Primo, con i tassi d’interesse spinti ai più bassi livelli possibili (vicino lo zero), la politica monetaria ha esaurito le sue munizioni anticicliche convenzionali (la famigerata “trappola della liquidità” keynesiana), e quelle non convenzionali non sembrano avere effetti straordinari, come mostrano gli esiti delle ripetute energetiche tornate di quantitative easing della Fed e di quelle più prudenti della stessa Bce. In altre parole, il meccanismo di trasmissione della politica monetaria, inceppato dalla crisi finanziaria (le banche sono riluttanti a concedere prestiti), non è stato sbloccato dal quantitative easing, o, perlomeno, quest’ultimo è servito solo a non far peggiorare le cose, senza riuscire a migliorarle. Qui, naturalmente, si potrebbe discutere se questo parziale insuccesso sia stato un risultato inevitabile o sia dipeso dalla dimensione inadeguata dell’intervento. La verità è che, nel nuovo scenario della politica monetaria, gli economisti sono arrivati in una “terra incognita”. 

Secondo, i programmi di austerità, che rappresentano la quintessenza della virtù fiscale, e che sono stati adottati in forme energiche (sia nella dimensione che nel timing) soprattutto in Europa, hanno provocato effetti recessivi superiori a quelli attesi. Il problema è stato sollevato, anche se in modo alquanto tecnico, da numerosi osservatori, compresi le principali istituzioni internazionali come l’Fmi, l’Ocse e la stessa Commissione europea. Da ultimi Olivier Blanchard (capo economista del Fmi) e Daniel Leigh hanno confermato che i moltiplicatori fiscali assunti comunemente si sono rivelati largamente sottostimati (“Growth Forecast Errors and Fiscal Multipliers”, January 2013). Questa sottostima spiega perché la gran parte dei previsori aveva associato i programmi di consolidamento fiscale, intrapresi dai vari paesi in particolare in Europa, a tassi di crescita attesi superiori a quelli effettivamente realizzatisi. In media, il valore dei moltiplicatori fiscali, usati e validati per i tempi normali, era ipotizzato attorno a 0,5. I fatti hanno dimostrato che, nei tempi di crisi, i moltiplicatori fiscali sono più alti e superano largamente l’unità.

Ovviamente, gli effetti di breve periodo sulla domanda aggregata della politica fiscale sono solo uno dei vari fattori che devono essere considerati nel determinare la grandezza e il ritmo appropriati del consolidamento fiscale. E il fatto che i moltiplicatori fiscali possano essere maggiori di quanto atteso (e sperato) non implica che il consolidamento fiscale sia indesiderabile. Semplicemente, è necessario, a causa degli elevati livelli del debito pubblico e le prospettiche pressioni demografiche sulle finanze pubbliche.
La morale è che, viste queste incertezze degli economisti, il compito dei responsabili della politica economica è ancora più impegnativo del solito. Qui, secondo noi, sta l’essenza del dibattito, che sembra appassionare il nostro paese in modo morboso, sul ruolo dei tecnici e su quello dei politici. Questi ultimi sono, per l’appunto, i responsabili della politica economica. Oggi, più che in situazioni normali, la scelta delle politiche ricade sulle spalle dei politici. E le scelte politiche si fanno in base alle visioni politiche. Il punto di vista liberale, pro-mercato e pro-crescita, predilige politiche di stabilizzazione fondate su interventi monetari preventivi e su politiche fiscali che riducano la pressione fiscale nelle fasi di recessione e la spesa pubblica durante le fasi di espansione. Poiché il taglio delle tasse ha anche un effetto di offerta, tale approccio ha anche ripercussioni sulla crescita di lungo periodo. Col passare del tempo, le dimensioni del settore pubblico si riducono. Il punto di vista contrario, rovescia questo risultato (e di conseguenza l’indirizzo delle politiche) Gli elettori italiani dovrebbero poter scegliere tra queste due opzioni. Per farlo, le forze politiche che si confrontano oggi nel paese dovrebbero esprimere in modo chiaro l’adesione all’una o all’altra, e indicare i mezzi per raggiungere i fini enunciati (esplicitando una qualche base quantitativa controllabile dei vari programmi per saggiarne la coerenza). Ciò avverrebbe naturalmente se i politici avessero come motivazione dominante l’«interesse pubblico». La scuola della public choice ci ha mostrato quali siano le conseguenze per la politica economica quando i politici sono considerati persone normali, che reagiscono agli incentivi macroeconomici. La campagna elettorale che si sta sviluppando in vista delle elezioni di febbraio, sulla falsariga di quelle del recente passato, è una dimostrazione sotto gli occhi di tutti di quanto questa intuizione di Jim Buchanan ed associati resti essenziale per valutare la portata e i limiti della politica economica.

versione estesa de La Trappola, diario dei due economisti, Il Foglio – venerdì 11 2013.
Su questo questo argomento vedi anche i post: Louise-Michel del 3 aprile 2009 qui, DEF (Davvero E’ Finita?) del 21 aprile 2012 qui, e The Austerity Shadow Line dell’11 novembre 2012 qui.

The Austerity Shadow-Line

Cinque anni. Secondo il cancelliere tedesco Angela Merkel la crisi dell’Euroarea durerà ancora 5 anni. Se, per minimizzare, includiamo nel conto l’anno in corso, questo significa 2016. La dichiarazione è di qualche giorno fa, e conta di per sé naturalmente, data la rilevanza della fonte. Ma non è chiaro quanto, nel suo contenuto per così dire quantitativo, vada preso per una previsione, quanto per un’aspettativa, quanto per un obiettivo programmatico. E quanto, infine, ci sia di strategico, ossia rappresenti un artificio retorico da usare nei diversi contesti comunicativi, e nei vari tavoli del negoziato politico, a livello intercontinentale, europeo, interno. In ogni caso, il sottotesto di questa dichiarazione non è ambiguo: si tratta di un monito. Visto che la dichiarazione della Merkel è stato pronunciata al congresso regionale del suo partito (Cdu), come minimo possiamo decodificarla per farci un’idea sulla psicologia tedesca, o meglio su quali tasti il leader politico attualmente più importante di quel paese pigi per affrontare la psicologia dei suoi concittadini.
In ogni caso, la Commissione Europea ha fornito un qualche supporto “statistico” all’uscita di Angela Mekel, anche se ne ha decisamente ridimensionato il pessimismo. Nella Previsione Economica d’Autunno, la Commissione ha infatti fissato al 2014 la ripresa economica dell’euroarea. Per quell’anno la crescita dovrebbe raggiungere nella media d’anno un tasso dell’1,4 per cento. Nulla di elettrizzante, beninteso, dopo la frenata di quest’anno (-0,4 per cento) e il ristagno previsto per il prossimo anno (+0,1 per cento). La previsione della Commissione mette in luce un altro fatto che si può collegare all’uscita della Merkel: mentre la crescita dell’euroarea nel 2011 (+ 1,4 per cento) era dovuta essenzialmente alla spinta della Germania (+ 3,0%), al rallentamento di quest’anno e del prossimo, non si sottrae nemmeno l’economia tedesca – per entrambi gli anni è prevista una crescita anemica, inferiore all’1 per cento. Non solo, a dispetto delle politiche di austerità adottate a partire dal 2011 (quando il rapporto deficit/pil ha cominciato a scendere), il rapporto debito/pil dell’euroarea è previsto in aumento sia quest’anno sia il prossimo. Nel 2014 resterebbe stabile, attorno ad un livello superiore al 94 per cento (era all’80% nel 2009). 
Tuttavia, secondo noi la cosa più interessante di questa Previsione della Commissione Europea non si trova in questi dati di previsione, recepiti con clamore mediatico ma per nulla sorprendenti, anche se, dato il dominante clima d’incertezza, hanno sollecitato l’ipersensibilità dei mercati. La cosa interessante di questo documento della Commissione Europea si trova un po’ nascosta in un riquadro a pagina 41 dal contenuto apparentemente tecnico (“Forecast errors and multiplier uncertainty”). Vi si dice che la previsione di caduta del pil dell’euroarea per il 2012, rovescia drasticamente ciò che ci si aspettava nella primavera 2011, quando era stato previsto un tasso di crescita vicino al 2 per cento. Errori così grandi sono stati commessi dalla gran parte dei previsori, comprese le principali istituzioni internazionali. Come mai? Una possibile risposta è che tutte queste previsioni abbiano sottostimato la grandezza dei moltiplicatori fiscali di breve periodo, i quali misurano la variazione del pil in risposta ad una data variazione della politica di bilancio discrezionale, come conseguenza di una variazione nella spesa pubblica e/o nelle tasse. Nella visione teorica keynesiana, tutti i moltiplicatori fiscali sono maggiori di 1, anche se la loro grandezza è influenzata da vari fattori (propensione al consumo, aliquote fiscali, grado di apertura, ecc.). La visione teorica moderna ha rivisto drasticamente questa convinzione e l’evidenza empirica tende a confermare che, in condizioni normali, i moltiplicatori sono inferiori ad uno. In media, i moltiplicatori fiscali impliciti nelle simulazioni dei principali centri di previsione sono intorno a 0,5. La questione, come dicevamo, può apparire tecnica. Ma, con un gran numero di paesi che si trovano alle prese con programmi pluriennali di consolidamento fiscale, cioè con un prolungato indirizzo restrittivo della politica di bilancio, la questione è tutt’altro che tecnica: più sono piccoli questi moltiplicatori, più sono piccoli i costi del consolidamento. Il fatto è che è proprio la sincronizzazione in atto degli aggiustamenti fiscali, in particolare a livello dell’euroarea, a rendere gli effetti recessivi di breve periodo dei programmi di “austerità” più intensi. Anche perché, contemporaneamente, la politica monetaria non può essere usata per mitigare questi effetti, soprattutto nel contesto di un’unione monetaria e quando i tassi d’interesse sono già stati spinti verso il limite inferiore (in verità la Bce avrebbe ancora qualche margine, essendo il suo tasso di riferimento fermo ormai da tempo allo 0,75%).
Tutto questo significa che i programmi di “austerità”, necessari a ripristinare condizioni fiscali sostenibili e quindi favorevoli alla crescita, possono raggiungere il loro obiettivo programmatico e contribuire a ridurre l’incertezza a patto che la velocità dell’aggiustamento e la modalità del consolidamento siano equilibrati e tarati caso per caso. Di questo nella strategia europea, a cominciare col Fiscal Compact, non c’è traccia.
Se “austerità” è sinonimo di disciplina/responsabilità fiscale, c’è una linea d’ombra che separa le strategie “avventate” da quelle “ragionate”.