Crescita+Ciclo = Distruzione Creatrice

L’

ultima decisione presa dalla Commissione Nber (National bureau of economic research) che misura il ciclo economico degli Stati Uniti riguarda il lontano novembre 2001 (qui). Secondo l’autorevole commissione presieduta da Robert Hall, l’ultima contrazione dell’economia americana è terminata in quella data. È durata pochi mesi, dal Marzo al Novembre 2001. Dunque, niente di più di un intermezzo tra la più lunga espansione della storia americana (10 anni, dal Marzo ’91 al marzo 2001) e l’attuale ciclo positivo giunto al sesto anno. Che dovrebbe essere l’ultimo, a stare alle  molte previsioni secondo le quali l’economia americana è ormai sull’orlo di una crisi. A dispetto di questo pessimismo, l’economia Usa continua a trasmettere segnali di vivacità: sull’onda degli ultimi dati sui consumi di beni durevoli, l’indice borsistico Dow Jones ha stabilito un nuovo record, oltrepassando per la prima volta la quota di 13 mila punti.
Il fatto è che la frequenza dei cicli economici è diminuita a partire dalla metà del secolo scorso. Allo stesso tempo, è aumentata la durata media delle fasi di espansione mentre si sono ridotte sia la durata sia l’intensità delle fasi di contrazione. In altre parole, le espansioni sono più durature, mentre le recessioni provocano guai minori. Il ciclo, ossia l’alternarsi di fasi di espansione e contrazione dell’attività economica, caratterizza in un modo o nell’altro tutte le economie moderne più sviluppate. Per la verità già nella Bibbia si parla di sette anni di abbondanza seguiti da sette anni di carestia. E le deviazioni transitorie della produzione e dell’occupazione dalla loro tendenza di fondo riguardano anche le economie mediamente o poco sviluppate. Per gli economisti il ciclo economico rappresenta una sfida, nel senso che è sulla sua natura, sulla sua interpretazione e sugli eventuali rimedi che gli economisti contemporanei si dividono, spesso piuttosto aspramente. Non è sorprendente. Il ciclo è quella cosa per cui esiste la macroeconomia, ossia una teoria anti-riduzionista dei fatti economici per capire i quali non è sufficiente la comprensione dei comportamenti microeconomici. La macroeconomia è nata alla fine degli anni trenta del ‘900 (Keynes) proprio perché la teoria economica non era in grado di spiegare come un’economia potesse essere colpita da una recessione prolungata ed essere incapace di uscirne, rimanendo intrappolata in un “equilibrio” inefficiente (di sottoccupazione), caratterizzato da milioni di disoccupati e di fallimenti. La spiegazione fu che in certe condizioni si verificava un “fallimento del mercato”. Ciò implicava che era necessario affidarsi alla politica economica per stimolare la domanda aggregata. I governi avrebbero fatto bene ad usare attivamente gli strumenti sui quali avevano un certo controllo: la spesa pubblica, le tasse, l’offerta di moneta. Una quarantina di anni più tardi, Bob Lucas fece notare che i vantaggi derivanti dall’eliminazione delle fluttuazioni cicliche erano nulla rispetto ai benefici derivanti dall’aumento della crescita economica di lungo periodo. Ed Prescott si spinse più oltre: i cicli economici non erano un male ma una manifestazione naturale, e quindi efficiente, del modo di funzionare delle economie capitalistiche moderne. Oltretutto, da tempo esisteva una teoria, quella di Schumpeter, in grado di conciliare la crescita e le fluttuazioni in nome del principio della distruzione creatrice. Le economie di mercato sono continuamente “disturbate” da innovazioni tecnologiche e commerciali. Imprese e lavoratori differiscono tra di loro proprio nella capacità di creare, adottare e reagire a queste innovazioni. Cosicché il progresso economico produce inevitabilmente vincitori e perdenti. E fluttuazioni cicliche: la concorrenza più intensa durante le recessioni spinge le imprese a tentare di aumentare la produttività. Perciò il tasso di crescita di lungo periodo di un’economia dipende da come essa facilita e reagisce a questo processo di distruzione creatrice. Le politiche e le istituzioni che limitano la ristrutturazione e l’aggiustamento attenuano gli effetti negativi di questo processo al prezzo di ridurre la produttività e quindi la crescita. L’evidenza empirica, come al solito, è controversa, sebbene le grandi linee di questa visione shumpeteriana abbiano trovato un certo supporto. Tuttavia, recentemente Steven Davis e associati (Nber Working Paper n. 12354) hanno scoperto che la volatilità dei tassi di crescita (in termini di occupazione) delle imprese americane è diminuita di oltre il 40% dal 1982. Un periodo nel quale c’è stata una crescita impressionante della produttività. Se la volatilità misura il processo di distruzione creatrice, questi risultati non si conciliano con la visione shumpeteriana. A meno di ipotizzare che ci sia stato un forte aumento nel ritmo delle attività di ristrutturazione e adattamento, soprattutto da parte delle grandi “public company”, che ha accelerato la produttività.    

Regole – score gap or fixed points?

Recentemente sono state fatte due proposte per cambiare le regole del calcio. Entrambe mirano a modificare gli incentivi dei giocatori allo scopo di aumentare il gioco offensivo e, arguibilmente, lo spettacolo. Una delle due proposte è radicale perché propone semplicemente di abolire il pareggio anche nei tornei di lunga durata, come i campionati nazionali. Quando la partita finisce pari, si tirano i calci di rigore per assegnare la vittoria (in ogni caso gli sconfitti ricevono un punto). L’altra proposta riguarda invece il modo di amministrare i calci di rigore che sono usati nei tornei ad eliminazione per assegnare la vittoria in caso di pareggio anche dopo i tempi supplementari. La proposta è di farli tirare PRIMA e non dopo i tempi supplementari. Torneremo su queste proposte. Ora ne vogliamo fare una noi. La proposta è la seguente: assegnare la vittoria in un torneo di lunga durata non sulla base della classifica calcolata con il sistema tradizionale (tre punti per la vittoria, uno per il pareggio e zero per la sconfitta), ma secondo il criterio della DIFFERENZA RETI (score gap), ossia il divario tra gol segnati e subiti. Ad esempio, prendiamo l’attuale campionato italiano e supponiamo che sia finito ieri. Avrebbe vinto l’Inter con 81 punti contro i 68 della Roma. Viceversa, applicando il sistema basato sulla diferenza reti si avrebbe questo risultato:

 

Gol segnati

Gol subiti

differenza

Inter

66

28

38

Roma

65

24

41

La Roma vince il campionato!  

Politiche monetarie: BCE

La Banca Centrale Europea (BCE) ha deciso di lasciare invariato a 3.75% il tasso di interesse-chiave (main refinancing operations), che era stato fissato nel marzo scorso. Come mostra il primo grafico, era dal settembre 2001 che non veniva raggiunto questo livello.
Jean-Claude Trichet, presidente della BCE, ha definito tale livello “moderato”. Il che significa, tentando di interpretare il linguaggio della comunicazione della banca centrale, un livello del tasso d’interesse che è considerato “neutrale” rispetto alla crescita economica, nel senso che non la ostacola né la stimola, o al limite risulta blandamente accomodante. Ovviamente una crescita che non accelera l’inflazione è il sogno di tutti, persino dei banchieri centrali, e si realizza quando la produttività mantiene il ritmo dei costi (e dei prezzi). Trichet, non a caso, nel rilanciare il solito warning sulla dinamica dei salari nominali, ha messo in evidenza l’«attenzione particolare» con la quale la Banca segue le negoziazioni salariali in Eurolandia. Il che significa che se la pressione congiunta sui prezzi della domanda e delle rivendicazioni salariali divenisse pericolosa, la Banca interverrebbe energicamente sui tassi d’interesse. Tuttavia, è più probabile che la Bce vada avanti con la sua strategia di rialzi preventivi, graduali e prevedibili dei tassi se si aspetta che le condizioni macroeconomiche restino favorevoli per tutto il 2007. Ciò significa che tra Agosto e Ottobre il tasso di interesse-chiave potrebbe essere arrivato al 4.25%, ossia ai livelli dell’estate 2001. Trichet ha anche asserito che non avrebbe "detto nulla che avrebbe potuto cambiare le aspettative per Giugno". Ossia la Banca Centrale rende il suo operato trasparente e regolare in modo che sia prevedibile e non sorprenda gli operatori – il contrario del modello della "surprise shock supply function" di Bob Lucas secondo il quale la politica monetaria diviene efficace solo quando sorprende il pubblico.

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In effetti, tanto le prospettive della crescita quanto quelle dell’inflazione dell’area dell’Euro restano relativamente tranquillizzanti e questo spiega la “moderazione” della banca centrale. Il Fondo Monetario Internazionale (IMF), nel suo Outlook di Aprile, ha rivisto al rialzo la crescita prevista per il 2007 in Eurolandia: dal 2 al 2,3% . Il che significa che la crescita attesa per quest’anno proseguirà ad un ritmo molto più blando di quello raggiunto nell’ultimo trimestre del 2006 (+3.3%), anche se superiore alle aspettative dei mesi precedenti. Del resto, l’inflazione è rimasta al di sotto del target del 2% nell’ultimo trimestre dell’anno passato così come nei primi tre mesi di quest’anno, sebbene la tendenza mostri a marzo un leggero rialzo (1.9%) – vedi secondo grafico.

L’unico vero fattore di complicazione di questo scenario è il continuo rafforzamento dell’euro, ormai vicino ad essere scambiato a 1.35 col dollaro, e quindi vicino al record di 1.3667 raggiunto nel Dicembre del 2004.
Per l’Italia le implicazioni principali sono due: il costo del debito pubblico è destinato ad aumentare – e questo rende sempre più indifferibile la sua riduzione; le imprese esportatrici italiane devono abituarsi, come hanno fatto quelle tedesche, a convivere con un euro più forte, ossia devono riuscire ad essere competitive anche con un euro che “vale” 1.40 dollari. E l’unico modo virtuoso per farlo consiste nell’aumentare la produttività in modo da tenere sotto controllo il costo unitario del lavoro.

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Irrilevanze

Equivoco Telecom: irrilevante la nazionalità, irrilevante la società, irrilevante il cancan

G

li ammonimenti di Mario Draghi, gagliardamente fatti propri da Vincenzo Visco, avevano finalmente rimesso le cose a posto. Nel senso che avevano fatto tornare l’economia sulle prime pagine dei giornali nel modo che più ci piace: concentrando l’attenzione sulle faccende essenziali e sviandola dai dettagli irrilevanti. Nel numero di Aprile del Bollettino Economico di Bankitalia, essendo questa la fonte degli ammonimenti più che il governatore in persona, avevamo letto che per favorire il ritorno ad una crescita sostenuta della produttività e del reddito, mantenendo l’obiettivo di medio termine del pareggio strutturale di bilancio dei conti pubblici, era necessario ridurre la pressione fiscale “che supera quella media dell’area dell’euro e si colloca in prossimità dei valori massimi storici e… accrescere gli investimenti pubblici, in diminuzione da due anni”. E che per questi scopi era “pertanto indifferibile,…, il contenimento della spesa primaria corrente, la cui incidenza sul PIL si è attestata nell’ultimo biennio al 40 per cento, superando anche gli elevati valori raggiunti nei primi anni novanta”. Dopo di che avevamo letto che il vice-ministro dell’Economia concordava sulla necessità di tagliare le tasse, naturalmente in modo graduale, dando la precedenza alle famiglie piuttosto che alle imprese, “che hanno già avuto la loro parte”. Insomma, un’analisi e un approccio di “policy” che qui abbiamo ripetuto sino alla monotonia. Ecco che allora, essendosi ristabilito il clima giusto nelle faccende domestiche, il Diario avrebbe potuto dedicarsi ad altri temi, magari a quelli che tengono banco sui media internazionali, ossia i rischi connessi alla crescita economica – il terrorismo la povertà le esternalità ambientali. 

Sennonché, ci è piombata addosso la faccenda Telecom che come un fiume in piena ci ha scaricato addosso insieme alle acque limacciose detriti di ogni sorta. Un’inarrestabile ondata di commenti, appelli, dichiarazioni, smentite, avvertimenti, pentimenti, no-comment, giaculatorie sul libero mercato e sulla patria in pericolo a cui ahimè nessun giornale si è decentemente sottratto. Qui, viceversa, noi sosteniamo che l’unico modo serio di occuparsi della faccenda, se proprio non se ne può fare a meno, è di rivendicarne l’irrilevanza. Telecom è una vecchia azienda che per vari motivi ha perso l’opportunità di diventare un’impresa innovativa e si è ridotta a vivacchiare in un settore che per quanto riguarda l’Europa è ormai maturo. Ciò che dovrebbe preoccupare tutti, politici imprenditori sindacati cittadini, è il destino o meglio il mancato destino delle imprese innovative che in Italia fanno fatica a nascere, come i bambini, perché il sistema è per la difesa dello status quo, essendo congegnato in modo da ostacolare le innovazioni – le nuove imprese, le nuove idee, i nuovi prodotti. Intendiamoci, Telecom resta un’azienda grande, soprattutto rispetto alla dimensione media delle imprese italiane, opera in un settore “sensibile”, possiede una rete usata da tutti gli italiani, e nonostante la staticità e i debiti risulta ancora appetibile – magari per qualche asset che possiede fuori dei confini nazionali. È per questo che l’offerta congiunta at&t-america movil per i 2/3 di Olimpia, la holding di casa Pirelli che controlla Telecom con una quota del 18 per cento, rappresenta un fatto positivo. Al di là degli interessi dell’attuale proprietà, logicamente preoccupata dalla montagna di debiti e attratta dal prezzo offerto (2,92 euro per azione), superiore a quello di mercato anche se molto inferiore a quello sborsato nel 2001 da Marco Tronchetti Provera per impossessarsi della società – e in questi divari si coglie tutta la cattiva gestione a cui è stata sottoposta la società da quando è stata privatizza oltre dieci anni fa. Ma il fatto è che questa fiumana di reazioni smodate riguarda in realtà un equivoco, una impresa vecchia in cattive acque che è una public company fasulla. Giacché Telecom è un tipo di società che assomiglia alla tipica impresa “familiare” (mal gestita) del capitalismo non competitivo italiano, visto che un gruppo può riuscire a controllarla anche solo con lo 0,6 per cento del capitale. Che c’entra il libero mercato? Qui il mercato non c’è e il problema non è la nazionalità della proprietà, non è l’invadenza della politica, non è l’inefficienza del regolatore. E non è nemmeno la sicurezza nazionale, come sostiene qualcuno magari per giustificare una ri-publicizzazione della rete, perché se ci sono stati problemi da questo punto di vista, ed è difficile negarlo, il massimo pericolo è stato raggiunto sotto l’attuale proprietà e gestione: italianissime, anzi lombarde. Perciò, l’unico pensiero che val la pena menzionare in questo Diario è quello controcorrente espresso da Giuseppe De Rita, il quale trova “arretrato” mettersi a difendere l’italianità di alcunché e per di più di una rete di telecomunicazioni che “è gia vecchia: è più moderna quella dell’esercito, per dire”, e che l’unica eccezione a questo principio si può fare se in gioco ci sono dei simboli: “per esempio la Roma. Io sono laziale, ma la Lazio la si potrebbe anche vendere ad uno straniero. La Roma no, è un simbolo”. Noi che siamo romanisti, viceversa crediamo che anche per un simbolo come la Roma la questione della nazionalità della proprietà sarebbe irrilevante. Per l’intanto ci godiamo la vittoria della Roma romana sul Manchester United, il più inglese dei club inglesi anche se da due anni il proprietario è Malcolm Glazer, un finanziere americano di Tampa Bay.
(vedi l’archivio di Sofia alla categoria calcio o al mese di maggio 2005).        

anche sul FOGLIO di Venerdì 6, pag.2