Macroeconomics is out of joint (in 2038)

La rivelazione si trova in una molto celebrata graphic novel di Luis & Romolo Royo, Malefic Time (Apocalypse, 2012 Lizard) – niente di che ai nostri occhi profani: un mix di Milo Manara manga e fantasy neo-gotico. La didascalia descrive NYC nel 2038: «Quella mattina newyorchese si era immersa in una nube dorata che avvolgeva i profili dei rari colossi ancora in piedi…C’era poco movimento in quelle strade una volta affollate e frenetiche. Le poche persone che si avventuravano all’esterno lo facevano in piccoli gruppi…pronti a notare qualsiasi imprevisto. In quegli anni di decadenza e castigo, l’essere umano era cambiato. Il suo istinto di vita aveva fatto scempio non solo del vecchio stile di vita, ma anche della morale…Era già molto lontana quella società che, almeno in teoria, rappresentava la vetta dell’evoluzione tecnologica dell’essere umano. I mezzi di comunicazione, le istituzioni, la macroeconomia, la politica…non erano altro che cose del passato…Si passò dalla teorica società del benessere a quella della paura irrazionale, all’ossessione per l’anonimato, al terrore…di un sistema capace di divorare se stesso».
Il solito scenario post-apocalittico ispirato alla retorica della contro-utopia, si dirà. Certo, ma ciò che ci colpisce è l’uso della parola macroeconomia in questo contesto di amletico “time out of joint”. Non più il capitalismo, i mercati, la finanza, ecc., come epitome simbolica dell’ordine (economico) perduto, ma la “macroeconomia”. Ossia, la macroeconomia come segno della storia passata. La fine della storia è la fine della macroeconomia. Davvero troppo per una cosa, la macroeconomia, che non si sa bene cosa sia. Perché mentre la microeconomia è ognuno di noi, la macroeconomia consiste negli effetti di tutti noi messi assieme. E studiarla espone ai ben noti rischi “olistici”, una brutta bestia, che dopo Hegel (e Marx) filosofi e soprattutto scienziati del mainstream si sono ben guardati dal correre. Con le notevoli eccezioni dello strutturalismo e, appunto, della macroeconomia, intesa come teoria. E tuttavia, a quanto pare, la macroeconomia esiste. Esiste, e tutti noi ce ne stiamo accorgendo in questi momenti critici. Ognuno capisce, di questi tempi, che la prospettiva microeconomica, che è “naturale” come i singoli individui che la esprimono (anche se non si uniformano nei loro comportamenti all’idea che la teoria microeconomica predilige), non è sufficiente per capire le cose. Anche quando un’economia è in piena crisi, ci sono settori, industrie, mercati che prosperano e con essi tutti coloro che vi operano. Dunque, la macroeconomia serve. Solo che la macroeconomia è complicata giacché complessa è la realtà che cerca di aferrare.
Prendiamo la faccenda del debito pubblico che è uno dei punti chiave del malessere italiano. A fine Giugno, secondo la Banca d’Italia, lo stock del debito pubblico ha continuato a crescere sfiorando i 1973 miliardi di euro. Un bel mucchio di denaro, non c’è che dire. Però, di per se, questo enorme stock conta relativamente da un punto di vista macroeconomico. Per dire, anche il debito pubblico tedesco continua ad aumentare, a dispetto de rigore teutonico, ed è ben superiore a quello dell’Italia (circa 2200 miliardi di euro). Se è per questo, il debito pubblico degli Stati Uniti ha una dimensione persino difficile da mettere a fuoco – oltre 16 mila miliardi di dollari – per non dire di quello giapponese. In effetti, ciò che conta è il rapporto tra tale stock di debito pubblico e il pil. Il pil nominale, che tiene conto sia delle variazioni dei prezzi (inflazione) sia di quelle delle quantità (crescita reale). Prendendo gli ultimi dati (ottimistici) del governo (Programma di stabilità), il pil nominale dovrebbe crescere quest’anno di mezzo punto percentuale, esclusivamente per effetto degli incrementi di prezzo visto che la crescita reale sarà negativa. Quindi il rapporto debito/pil salirà a circa il 124 per cento. Un record storico. Le previsioni del governo, sono che lo stock del debito continuerà ad aumentare, nonostante le politiche di austerità (aumento dell’avanzo primario), sino al 2014, dopo di che comincerebbe a scendere. Nel frattempo però, il rapporto tra questo debito è il pil dovrebbe stabilizzarsi tra quest’anno e il prossimo anno e cominciare a scendere decisamente sin dal 2014. Secondo le proiezioni governative nel 2015 il rapporto debito/pil sarebbe sceso attorno al 114%. Ancora molto. Queste proiezioni, a dire il vero, da un lato sono sia ottimistiche perché scontano un’evoluzione ciclica dell’economia italiana meno peggiore di quello che probabilmente sarà, sia troppo severe perché sono al lordo dei prestiti alla Grecia e dei contributi ai vari fondi “salvastati” -Esfs e Esm- (al netto di queste quote, in media circa 70 miliardi l’anno, il rapporto debito/pil sarebbe intorno al 111% nel 2015). In ogni caso, la discesa del rapporto è troppo lenta. Ma questo non dipende tanto dal numeratore – lo stock di debito – quanto dal denominatore – il pil nominale. È su quest’ultimo che dovrebbero essere concentrati gli sforzi (anche se, ovviamente, la “valorizzazione” degli asset pubblici di cui tanto si parla servirebbe alla causa, a patto di limitarsi ad un programma pragmatico di dismissioni e di evitare fantasie finanziarie e tassazioni addizionali esplicite o mascherate). Un semplice esercizio di aritmetica contabile lo dimostra: se lo stock del debito restasse nei prossimi anni al livello di oggi, ma se allo stesso tempo il pil nominale crescesse a partire dal prossimo anno ad un ritmo di 5 punti percentuali, tra sette anni, nel 2019, il rapporto debito/pil sarebbe sceso sotto il 90%. 5 punti percentuali sono un’enormità? Nella situazione attuale, di certo. Non in assoluto. Dopotutto, il 5 per cento di incremento del pil nominale potrebbe essere il risultato di un inflazione al 2,5% e di una crescita reale della stessa velocità. Il punto dunque è sempre quello: il rilancio della crescita  (l’inflazione, eventualmente, segue).