Sgravi e chiacchiere

Sul Foglio di ieri è uscito un Diario di due economisti dal titolo Sgravi e chiacchiere. Eccone il testo originale:
Il taglio delle tasse sui redditi personali (Irpef) è uscito dai discorsi ufficiali del Presidente del Consiglio. Sopravvive nelle dichiarazioni laterali, nelle conversazioni informali. E così diventa chiacchiera. Una storia già vista. Nel frattempo, il vice-Presidente del Consiglio propone di vendere le spiagge (rectius: concederle in affitto per 99 anni). E così le privatizzazioni divengono uno spot di finanza creativa. Un’altra storia già vista. Quando si dice dissipare un capitale. Il “capitale politico” rappresentato dal programma di riduzione del peso economico dello stato, di freno alla sua invadenza e di stimolo al dinamismo individuale e dei mercati – taglio delle tasse, liberalizzazioni, privatizzazioni – perde di valore, di credibilità, schiacciato dalle chiacchiere, dagli spot, dalle battute, dagli annunci, e dal blob mediatico che lo frammenta e lo ricostruisce all’insegna del ridicolo.
Eppure, la riforma fiscale, seppure incompleta, c’è stata davvero. I tagli dell’Irpef effettuati dal governo Berlusconi ammontano sino ad oggi a circa di tredici miliardi di euro, oltre l’un per cento di pil (prodotto interno lordo), non proprio un’inezia. Come si spiega allora che, almeno sinora, abbiano avuto un impatto così modesto sull’economia?
Massimo Baldini e Paolo Bosi provano a dare delle risposte su http://www.lavoce.info (24 Aprile). Essenzialmente le ragioni sono due. La prima è che i tagli fiscali sarebbero stati finanziati non con minori spese ma con aumenti di imposte indirette. La seconda ragione è il fiscal drag: ogniqualvolta si verifica un aumento del reddito nominale la somma da pagare per un’imposta progressiva come l’Irpef cresce più che proporzionalmente rispetto al reddito, determinando un aumento reale del peso dell’imposta. Baldini e Bosi fanno un esempio. Prima della riforma fiscale, un lavoratore dipendente con un reddito lordo di 25000 euro e un figlio a carico pagava nel 2002 un Irpef di 5185 € (20,7% del reddito). Con il nuovo sistema, l’imposta sarebbe nel 2005 di 4708 € (18,8%), ossia quasi 500 euro in meno, con una riduzione dell’aliquota media di due punti percentuali. Tuttavia, nel periodo considerato il reddito nominale è aumentato. Se si ipotizza un aumento annuo del 2,5 per cento (come l’inflazione media), il reddito imponibile sarebbe divenuto pari a 26922 € e la relativa imposta sarebbe di 5294 €, il 19,7%. Quindi, in questo caso il risparmio non sarebbe pari al 2% del reddito, ma solo alla metà.
In conclusione, secondo Baldini e Bosi, il drenaggio fiscale si sarebbe mangiato circa la metà degli sgravi Irpef adottati negli ultimi tre anni. Anche a causa del fatto che la riforma comporta una certa intensificazione dell’effetto del fiscal drag, dovuto ad un aumento della progressività dell’imposta che è relativamente maggiore per i redditi medio-bassi.
Probabilmente Bosi&Baldini sovrastimano gli effetti del fiscal drag – anche perché in questi anni l’inflazione è stata contenuta e il recupero dei salari e degli stipendi non particolarmente esasperato. Tuttavia, quando i tagli fiscali hanno una dimensione limitata e non sono congegnati in modo sensibile, le distorsioni provocate dal fiscal drag possono essere non trascurabili tanto più se l’effetto dell’inflazione sui redditi nominali è marcato.
In ogni caso, gli effetti complessivi dei primi (e ultimi) due moduli degli sconti Irpef sono dovuti ad altri fattori. I tagli delle tasse operano attraverso due canali. Gli effetti di domanda, di breve periodo, sono stati senza dubbio quelli più deludenti. Il perdurante clima d’incertezza sull’evoluzione sia dell’attività economica sia dei conti pubblici – dovuto in parte alla congiuntura internazionale negativa, in parte ai tentennamenti del governo – hanno spinto i consumatori e gli investitori alla cautela, e alla diffidenza sulla sostenibilità della de-tassazione. Gli effetti di offerta si generano nel medio-lungo periodo e quindi occorre più tempo per valutarli.
Ma se gli sgravi Irpef sembrano tramontati, un intervento del nuovo Governo sull’Irap appare molto probabile. E sul sito de La Voce questa aspettativa trova una grande attenzione. Gli interventi sono vari: ce ne sono due di Massimo Bordignon, ce n’è uno di Silvia Giannini e Maria Cecilia Guerra, ed un altro di Ruggero Paladini. Tutti questi commenti sono di un certo interesse, ma hanno in comune una caratteristica curiosa: danno per scontato che l’eliminazione o la riforma dell’Irap – definita una tassa funesta – comporterà l’introduzione di una nuova imposta o l’inasprimento di quelle esistenti per compensare la perdita di gettito. Ossia, la pressione tributaria complessiva non diminuirà. Ciò è dovuto a diverse ragioni, secondo questi commentatori. La principale sembra essere che l’Irap è la più importante imposta delle Regioni – ne finanzia quasi la metà delle spese e su di essa le singole Regioni godono di una certa autonomia, sia in termini di aliquote sia di distribuzione dell’onere tra i contribuenti. Quindi, secondo La Voce, non è pensabile che alle Regioni sia sottratta questa risorsa.
Ma se è così, e se la pressione tributaria è destinata a rimanere invariata, se la riforma o l’eliminazione dell’Irap non sarà finanziata in disavanzo o con riduzioni di spesa, non si capisce il motivo di tanto agitarsi. O meglio, si capisce bene perché stia tanto a cuore a tutti coloro i quali, viceversa, detestano i tagli dell’Irpef, che riguarderebbero tutti i contribuenti, e rimpiangono la competitività perduta dell’impresa italiana – ridefinita l’«interesse nazionale».

3Monti bis!

A proposito del ritorno di Tremonti, segnaliamo l'<agendina> del nuovo vice-premier fissata da Daniele Capezzone 

Intervento di Daniele Capezzone per "Notizie Radicali", il giornale telematico dei Radicali Italiani (25 Aprile 2005)  http://www.radicali.it/ 

Antologia delle dichiarazioni rese ieri dal bi-vicepresidente (del Consiglio e di Forza Italia).
Numero uno: la crociata contro il "mercatismo mondialista" della sinistra.
Numero due: attacchi al "globalismo".
Numero tre: meglio Vendola della "trimurti" Prodi-Fassino-D’Alema.
Ma a queste "new entries" occorre aggiungere gli "evergreen" del repertorio tremontiano.
Numero uno: "No a Bruxelles come Washington".
Numero due: "Sì a dazi e protezioni".
Numero tre: difesa delle corporazioni e delle loro rendite a base di "professional day".
Numero quattro (per la verità, in condominio con altri autorevoli membri della sua coalizione): attacchi alle compagnie aeree low-cost per la crisi dell’Alitalia.
Dinanzi a tutto questo (una originale, interessante, personalissima "summa" a-liberale o anti-liberale), mi permetto di formulare una riflessione e una proposta. La riflessione è che siamo dinanzi a un personaggio che (lo ripeto: da sponde non liberali) ha indubbiamente una sua potente visione, un suo progetto, e può davvero ambire alla leadership di uno schieramento politico.La proposta è che, dinanzi a tutto questo ben di Dio, Fausto Bertinotti gli offra da subito la tessera d’onore di Rifondazione.

Della concorrenza

Dal Diario di 2 economisti sul FOGLIO di oggi:
Mario Monti è (relativamente) ottimista. In un’intervista al CorrierEconomia (11 Aprile, pag. 2), l’ex-commissario europeo dichiara a Massimo Mucchetti che lui “ci vuole credere e, sostanzialmente, ci crede”. A cosa? Alla possibilità di avere più mercato, più concorrenza. Naturalmente Monti non si nasconde i problemi: “la politica della concorrenza si fa se trova il consenso dell’opinione pubblica”. In Italia l’Autorità Antitrust è rispettata e questo è un buon segno. L’ottimismo di Monti non si limita all’Italia e abbraccia l’Europa: sebbene la riforma del patto di stabilità lo preoccupi (perché mina il valore politico delle regole comuni), la politica della concorrenza, invece, non gli sembra per niente in pericolo.
Su cosa poggia la fiducia di Monti? Per l’Italia, sull’ impegno irrevocabile a sostegno della liberalizzazione dei mercati e della politica della concorrenza che avrebbe assunto la Confindustria – altrimenti Montezemolo non si sarebbe “deliberatamente così ben legate le mani”. E per l’Europa, sul fatto che il nuovo commissario alla concorrenza che ha preso il suo posto, l’olandese Neelie Kroes, non ne ha modificato, almeno per il momento, la strategia (la “linea Monti” come la chiama ossequiosamente l’intervistatore).
Onestamente sembra un po’poco per essere ottimisti (ammesso che Monti lo sia veramente).
A noi sembra, viceversa, che il destino del mercato sia molto più incerto, in Italia e in Europa.
In Europa è da tempo in atto uno “scontro di civiltà”, la contrapposizione tra due opposti paradigmi: il dirigismo alla francese e il liberismo alla britannica. La posta in palio è alta: il ruolo del mercato nella futura Unione Europea.
La partita che si sta giocando è ben descritta da Alberto Alesina in un articolo del Sole 24 Ore (10 Aprile, pag.1), di cui condividiamo quasi tutto. Nella visione liberista le istituzioni europee sono “leggere”: concretamente dovrebbero limitarsi a garantire il mercato unico, la moneta unica e poco altro. Il modello dirigista si fonda sul protezionismo, sulla politica agricola che protegge i produttori europei, soprattutto francesi e tedeschi, a scapito di quelli africani, sui salvataggi delle imprese private e pubbliche a spese del contribuente, sul boicottaggio delle liberalizzazioni e del mercato unico (nonostante la retorica europeista), e, soprattutto, su di una “minuta regolamentazione”. Una strategia perdente in un’epoca di grandi cambiamenti e illusoria per la pretesa di imporre politiche comuni a 25 Paesi così diversi. Insomma, un vicolo cieco, se prevalesse il “partito francese”. Un incubo, aggiungiamo noi. Secondo Alesina, questa è l’Europa del processo di Lisbona che ha formulato il disegno (fortunatamente rimasto sulla carta sin qui) di un “kafkiano piano quinquennale”. Nel quale si stabilisce il numero di bambini che andranno all’asilo nel 2010, il preciso tasso di partecipazione dei maschi e delle femmine europee, i settori dove concentrare la ricerca e così via.
Nel suo ultimo libro, un non-romanzo sul romanzo, Milan Kundera ha scritto che “la … rottura con la burocrazia è una delle grandi rotture dell’uomo nei confronti del mondo moderno” (Il Sipario, 2005, pag.145). Anche Kundera cita Kafka. Il Kafka del Castello e del Processo. Poiché il romanzo è l’ultimo osservatorio dal quale si possa abbracciare la vita nel suo insieme, Kundera scopre l’aspetto paradossale di tutto ciò: “nelle nostre vite dove tutto è pianificato, determinato, il solo imprevisto possibile è un errore della macchina amministrativa, con tutte le sue imprevedibili conseguenze. L’errore burocratico diventa l’unica poesia (poesia nera) della nostra epoca” (pag.150).
Gli economisti di solito si limitano a mostrare le conseguenze di politiche alternative, senza prendere partito. Questo Diario è di parte: all’Europa serve più concorrenza. Per almeno tre buone ragioni. Perché, in primo luogo, una maggiore concorrenza provoca una migliore performance macroeconomica – e la bassa crescita europea dimostra quanto ce ne sia bisogno. Perché, in secondo luogo, potenzia la politica macroeconomica, rendendo prezzi e salari più sensibili alle condizioni del mercato. E, terzo, perché l’aumento della concorrenza ha effetti positivi sul resto del mondo attraverso il suo impatto sulle ragioni di scambio. Le simulazioni effettuate da Tamim Bayoumi, Douglas Laxton e Paolo Pesenti ( i primi due dell’Imf, il terzo della Fed di New York) mostrano che le differenze nella estensione della concorrenza possono spiegare più della metà del divario nel Pil pro-capite (un indicatore di benessere) tra gli Stati Uniti e l’area dell’euro (“Benefits and Spillovers of Greater Competition in Europe: A Macroeconomic Assesment”, Nber WP n° 10416).
E l’Italia?
Alesina osserva che la Francia e la Germania (l’asse del “partito dirigista”) pur declamando le virtù delle politiche comuni sono state le prime, con il Portogallo, a violare il Patto di Stabilità e ne hanno evitato le conseguenze grazie anche alla complicità interessata dell’Italia. Ma se il governo italiano aveva questo interesse, non si capisce per quali motivi l’ex-ministro Tremonti, invece di attuare subito e integralmente il taglio delle tasse e le altre riforme pro-mercato che la Casa delle Libertà si era impegnata a realizzare vincendo le elezioni del 2001, abbia speso il tempo non breve del suo ministero ad escogitare i più ingegnosi espedienti per non superare il tetto del 3 per cento nel rapporto deficit-Pil.
Il rischio che oggi corre l’Italia, al di là della stagnazione e del peggioramento dei conti pubblici, sembra essere quello paventato da Angelo Panebianco (Corriere della Sera, 10 Aprile, pag.1): che l’opzione pro-mercato rappresentata da Berlusconi si indebolisca sempre di più e alla fine tramonti man mano che la sua leadership si indebolisce. Sottraendo lo stesso centrosinistra, eventualmente vincente, al necessario pungolo di chi contrappone “al piagnisteo anti-mercato…la visione dinamica e ottimista [basata] sul liberalismo economico, sulle virtù dell’individualismo, sulla moralità del profitto, sulla centralità,…, del mercato”.